domenica 27 dicembre 2015

L' inderogabile importanza dell'uso della parola


Sono un appassionato di parole. Ne costruisco frasi, pensieri, a volte - se proprio mi riesce - ne faccio racconti.
Come molti, osservo il viaggio delle parole nel tempo e devo dire che non sono entusiasta di dove stanno andando, tutte così di corsa, quasi che non abbiamo più il tempo per soffermarci su ciascuna di esse, per conoscerle meglio.
La parola è il mezzo che usiamo per fare in modo che le immagini che abbiamo nella testa si possano trasformare in immagini nella testa di chi ci ascolta. Quell'immagine è esattamente quella che cambierà il nostro mondo, che ci arricchirà oppure ci impoverirà, a seconda dell'effetto manipolatore di chi ha pronunciato ha pronunciato quella parola per raggiungere l'effetto desiderato.
Ma l'operazione di capirsi esattamente per quello che si vuol dire è tutt'altro che semplice, perchè molte parole, durante il loro viaggio nel tempo, hanno perso il loro significato originario e alcune lo hanno modificato profondamente, fino a smarrirne i contorni, e tutto questo rende sempre più complicato comprendersi.
Forse per questo, quando abbiamo un lapis a nostra disposizione, alla parola detta preferiamo fare un disegno dell'immagine che abbiamo nella testa: così è più facile capirsi.
Prendiamo per esempio la parola "rottamazione": fino a qualche anno fa si faceva largo nella nostra testa l'immagine di una macchina vecchia e arrugginita, oggi ci viene in mente D'Alema.
Oppure l'espressione "missioni di pace". Qual è l'immagine che scatta quando sentiamo la parola: missioni? Una spedizione in Africa (sì, ci sono anche altri continenti, ma il missionario che ci viene in mente va sempre a prestare la propria opera in Africa). Ben difficilmente all'espressione suddetta ci vengono in mente aerei che lanciano bombe o innocenti che vengono uccisi, e questo produce nel nostro cervello dei veri e propri cortocircuiti.
Che sta succedendo?
Ci stanno cambiando le carte in tavola, e questi piccoli cambiamenti partono proprio dal sovvertire l'uso delle parole, ovvero il  mezzo più comune che abbiamo per comunicare efficacemente.
Partendo dalla scuola, dovremmo forse tornare a manipolare le parole, a fare esercizi di destrezza per poterle usare meglio, un pò come fanno i giocatori di calcio quando fanno gli esercizi al muro con la palla, colpendola in vari modi per acquisire maggiore capacità nel trattamento.
In fondo la palla per i giocatori ha la stessa funzione che ha la parola per comunicare: non a caso quando i giocatori eseguono una fitta rete di passaggi, i cronisti hanno inventato il termine: "fraseggio".
Ridare alle parole il significato esatto è una sfida da iniziare subito, se non vogliamo perdere completamente il controllo di ciò che succede intorno e restare vittime dei manipolatori delle parole (e delle immagini che si producono nel nostro cervello) capendo sempre di meno del mondo che ci circonda e che si allontana sempre di più dalla nostra esatta comprensione.
Termino con un VIDEO  che reputo incredibile e straordinariamente sintetico rispetto all'uso corretto delle parole. Dura appena 1'47" ma rende meglio di qualsiasi "parola" quanto sia importante (decisivo) saper usare la frase esatta nelle varie circostanze che la vita ci pone davanti.
Don Milani, uno che se ne intendeva, diceva che "ogni nuova parola che impariamo è un calcio in culo in meno da parte dei borghesi".
Hasta la revolucion de las palabras!

Potenza, #festadellaparola 27 e 28 dicembre 2015



domenica 20 dicembre 2015

La città svelata. Potenza, 19 dic. 2015 Teatro Stabile


La città svelata. Ma direi anche: la città più consapevole. I racconti che sono stati immessi in questa pubblicazione sono tutti sinceri e schietti come il vino che abbonda sulle nostre tavole. 
Quelli che ci hanno messo la penna non hanno fatto una operazione di puro amarcord in salsa malinconia. I racconti sono stati scritti senza fare sconti e hanno messo a nudo un luogo che, forse per la prima volta, si svela per tutto quello che è nella realtà, con tante luci ma anche tante contraddizioni, emergenze, interrogativi.
Chi ha scritto, ha raccontato a volte le memorie di luoghi smarriti o nascosti in una città che aspira a diventare grande, ma inciampando spesso lungo il cammino, forse per la troppa fretta.
Altri hanno raccontato di persone che sono invecchiate o che non ci sono più e che rivivono nella narrazione con una luce diversa perfino da quella che hanno conosciuto quando erano in vita. È il potere della sublimazione del racconto, che fatalmente altera il reale per circondarlo di una cornice d’oro. Questi sono i racconti che meglio interpretano il senso profondo del libro: quello che tende alla riscoperta di una città che non è più quella di un tempo e che, proprio per questa ragione, va svelata per significare com’era a chi non l’abbia vissuta, o per farla rimembrare ai tanti che l’hanno conosciuta e l’hanno accantonata nella soffitta dei loro ricordi.
Poi ci sono altri racconti che invece si proiettano in un’operazione più funambolica, di fantasia e di irrealtà, pur mantenendo ovviamente i contatti con luoghi e personaggi esistiti realmente.
Durante la serata di presentazione del libro qualcuno ha detto che un luogo, fortificato dal racconto, è meglio in grado di resistere. Resistere è una parola dura. Fa pensare ad un’invasione, ed alla conseguente necessità di doversi difendere, con ogni mezzo. Io che sono un visivo, mi immagino il fortino della città attaccato da mille forze che vorrebbero sopraffarla, e al suo interno uno stuolo di cittadini che si armano come possono per non farsi prendere, per tenere alto il baluardo della difesa, mettendo muri di parole addossate alle porte d’ingresso.
Poi ecco che si materializzano, con una chiarezza quasi ultraterrena, un paio di simboli veri della resistenza, al di là di ogni mia più fervida immaginazione.
Mentre percorro a piedi Santa Maria per recarmi all’appuntamento con La città svelata, passo accanto a due negozi situati sotto al livello della strada, di quelli che per arrivarci devi scendere tre o quattro gradini. 
Dalla strada vedo un bimbo, cinque o sei anni, non di più, attaccato ad un gigantesco bancone di vetro a chiedere al negoziante qualcosa: il segno tangibile, in una immagine sola, di quanto si possa resistere al cambiamento anche mandando il proprio piccolo a fare la spesa al negozio sotto casa. 
Il secondo simbolo della resistenza, a pochi metri di distanza dal primo, si trova all’interno di una macelleria. Non ho visto il proprietario, ma nel camminare piano, mi è risultata chiara la scritta da lui realizzata con il nastro adesivo nero sul muro dietro il bancone, che simboleggia un altro tipo di resistenza, quella dall’invasione dei grandi centri commerciali e dalle catene della Grande distribuzione. In questo negozio, anch’esso posto tre o quattro gradini sotto il livello della strada, il macellaio aveva realizzato una scritta indirizzata evidentemente alla sua clientela che diceva: “SE MI LASCI NON VALE”.
Ho trattenuto quell’immagine dentro ai miei occhi sorridendo mentre procedevo, e pensando dentro me: ecco cosa vuol dire resistere veramente.
Ed ho pensato anche che forse il nome stesso del teatro di questa città sta a simboleggiare un destino che dovremmo cercare di preservare con maggiore convinzione.

giovedì 17 dicembre 2015

Avversione per l'espressione: "in qualche modo"



Mi fanno specie tutte quelle forme di espressione usate e riusate che finiscono con il diventare abusate, ovvero si adottano anche quando non ce n'è alcun bisogno.
Un po' come i "cioè": non servono per dare un contenuto ad una frase, ma perché non ci vengono altre parole. E fin qui.
Ma l'espressione suddetta mi provoca un certo fastidio anche per un'altra ragione.
Perché puzza lontano un miglio di quello che reputo uno dei maggiori difetti del popolo italiano: l'approssimazione.
Fa proprio parte della nostra natura la necessità 
ineluttabile di far quadrare i conti anche quando non si trovano mai. Ecco perché abbiamo inventato questa espressione. 
"Sì, è vero, gli immigrati non li gradisce nessuno, ma in qualche modo li dobbiamo accogliere, mica possiamo lasciarli morire in mare".
"La riforma del lavoro non è perfetta, ma in qualche modo andava fatta".
Ma che cazzo vuol dire "in qualche modo"?
Puzza proprio di quell'arte del compromesso di cui l'italiano è maestro, ma non quella nobile nella quale si rende necessario trovare un punto di mediazione tra vari punti di vista tutti qualificati, no: si tenta di rendere digeribile qualcosa di profondamente indigesto.
"Non mi piace questa minestra, ma in qualche modo la devo mangiare".
Se non ti piace, lasciala. 
Non farti influenzare dalla necessità di farti andare bene anche le cose che non ti piacciono. 
Ecco come ci stanno fregando. Attraverso l'uso delle parole ci fanno andar bene anche quelle situazioni che - in qualche modo - non gradiamo.
Ed è entrata talmente nel linguaggio comune che la tiriamo in ballo anche se non c'entra niente, anche se stiamo parlando di qualsiasi cosa, perfino di cose che sono l'opposto dell'approssimazione stessa: la matematica. Ovvero, anche quando parliamo di cose - per così dire - oggettivamente esatte, usiamo l'espressione tipica dell'approssimazione, rendendo quella cosa non più rigorosa. L'abbiamo castrata con le nostre stesse mani. Pardon, parole.
Siamo diventati anche nel linguaggio uno specchio sbiadito a cui affidare la nostra immagine peggiore. Ma non era questa l'era della comunicazione?

E se lo dice anche Sofri...

lunedì 14 dicembre 2015

Chiamatemi Ismaele



Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa - non importa quando esattamente - avendo poco o nulla in tasca, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, pensai di andarmene un po' per mare, e vedere la parte aquorea del mondo. È un modo che ho io di scacciare la tristezza, e regolare la circolazione.

Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell'anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l'ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto: questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. 

Soltanto nell’assenza di terra risiede la verità più alta, senza rive, senza limiti, come Dio, 
e per questo è meglio morire in quell’immane infinito che ingloriosamente farsi gettare dal
vento a terra, anche se quello sarebbe l’unico sistema per salvarsi. Sarà vana tutta questa
agonia?, oh, terrore terribile. E allora coraggio, coraggio, Bulkington! Aggrappati al timone,
semidio. Il tuo trionfo balzerà verso il cielo, su dalla schiuma del tuo morire d’oceano
(H. Melville)
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Fin qui Melville. Ci sono poi delle musiche che da sole sostituiscono le parole, anzi sanno fare meglio di esse. Non importa cosa dicono e neppure cosa vogliono dire, ma l'orecchio che viene accarezzato da certi canti (non saprei meglio definirli, giacchè i termini melodie, o canzoni, oppure brani, non mi sembrano neppure da prendere in considerazione), insomma certi canti sembrano provenire da altri pianeti, e quando pensi ai pianeti pensi a dei globi posti al di sopra di noi, e sei portato a guardare in alto. Sicchè da una parte ti giunge questo canto, dall'altra alzi istintivamente il capo e lo sguardo a cercare quel luogo magico da cui proviene, infine gli occhi si arrendono al suono e si chiudono, poichè qualunque immagine che si frappone tra il suono stesso ed i timpani accarezzati sembra essere di troppo. 
Ed in quel posto lì ci vorresti restare giusto il tempo per capire quale Dio possa aver creato un simile miracolo.

venerdì 11 dicembre 2015

Il Segreto di Babbo Natale


Quando arrivò la sera del 24 dicembre Leonardo non riusciva a prendere sonno. Aveva sette anni e dal giorno di Natale dell’anno prima continuava a ripetere a se stesso che quello era un momento che non si poteva perdere.
La venuta di Babbo Natale dentro casa era un avvenimento troppo importante per lasciarselo scappare. Non era il regalo in sé, che pure aveva aspettato per alcuni mesi, ma il sonno non gli veniva perché troppo grande era il desiderio di vedere l’uomo più importante della sua vita dopo il padre, intrufolarsi in casa - non aveva ancora capito bene da dove - e lasciare qualche pacchetto per lui e suo fratello.
Un anno prima, era ancora troppo piccolo per capire. Era andato a letto la sera del 24 dicembre, dopo aver fatto gli auguri alla mamma ed al papà, e il mattino dopo aveva trovato sotto l’albero un pacco grande per il fratello maggiore e uno più piccolo dove c’era scritto il suo nome.
La mamma aveva dovuto fargli controllare che su quel pacco il nome fosse proprio il suo, che era veramente indirizzato a lui e che non c’era nessun errore. L’indirizzo era quello, la casa era quella, e quando Leonardo aprì il pacco, tutto contento di essere stato nei pensieri di Babbo Natale, trovò effettivamente quello che aveva chiesto. Aprì la scatola con le sue piccole mani, scartò prima l’involucro di carta con i disegni delle renne, poi il cartone che ricopriva il dono, non capì immediatamente come si facesse a farne uscire il contenuto.
Per quello che lo riguardava, il regalo poteva essere contenuto anche in una busta bianca di plastica, tipo quelle che la madre portava a casa dal supermercato, aprivi la busta ed uscivano caramelle, panini, e tutto quanto, senza troppe difficoltà.
E fu così che, da quel preciso momento, una domanda gli era scattata prepotente come il desiderio di riceverlo: come faceva Babbo Natale ad azzeccare tutte le case e tutti i regali per tutti i bambini che glieli chiedevano?
Così fin dal Natale passato questa domanda gli frullava per la testa, senza che riuscisse a trovare una risposta. Qualcuno gli doveva dare una mano.
Il giorno dopo, sperando di risolvere l’enigma, decise di chiedere al fratello maggiore. Pensò che lui, di ben tre anni più grande, certamente ne doveva sapere di più.
- Senti Michè, ma tu come te lo spieghi il fatto di Babbo Natale?
- Quale fatto Leonà?
- Cioè che Babbo Natale arriva puntuale a casa di tutti i bambini, non sbaglia mai un regalo, ma come fa? Pensa a tutti i bambini del mondo, ma qual è il suo segreto per arrivare in tempo a consegnare tutti i regalini?
Michele lo guardò, sorridendo, e non rispose e se ne andò senza dargli alcuna risposta.
Questo silenzio aumentò ancora di più la sua curiosità.
Cosa c’era in Babbo Natale che non si poteva sapere? Perché nessuno gli dava una risposta?
Da quel momento si mise in testa che doveva scoprirlo, e spesso chiedeva al padre o alla madre: Quanto manca per arrivare a Natale?
I genitori pensarono che il bambino facesse quella domanda per avere un altro regalo, non immaginavano nemmeno lontanamente che a lui non interessava tanto il dono di Natale: lui adesso voleva il regalo più grande: scoprire il vero Segreto di Babbo Natale!

mercoledì 25 novembre 2015

Uomini e donne sono diversi



Una delle cause che spiegano in parte i meccanismi di violenza sulle donne è rappresentata da un grave deficit di comunicazione fra i due sessi. Lo spiega bene Deborah Tannen, sociolinguista americana in questo saggio "Ma perchè non mi capisci?" (Sperling & Kupfer, 2004).
Uomini e donne sono diversi, ma sembra che di questo semplice principio non ci si sia ancora resi conto abbastanza.
Fin da piccoli, infatti, femmine e maschi sviluppano due approcci mentali al linguaggio e al suo utilizzo così differenti da rendere difficoltosa la comprensione reciproca.
Rendersi conto dell’esistenza di queste diverse modalità di comunicare eviterebbe giudizi affrettati, rimproveri e incomprensioni che, a volte, si trasformano nell’anticamera della fine di un rapporto sentimentale, oppure, come sappiamo, in atti di violenza vera e propria.
Valorizzare lo sforzo che l’altro sta facendo per essere solidale con noi renderebbe la comunicazione sicuramente più efficace e si trasformerebbe in uno strumento utile, oltre che per risolvere il problema in sé, anche per rafforzare il rapporto di coppia
Di certo c’è la necessità di rielaborare un mezzo – la comunicazione – che è un importante veicolo di intesa e di legame tra le persone e soprattutto con le persone dell’altro sesso.
E’ riduttivo presupporre che non esistano differenze negli stili di comunicazione. Queste differenze esistono, eccome! E nelle relazioni tra uomini e donne è anche necessario identificarle e capirle. E' l’unica strada per trovare insieme soluzioni a situazioni che possono diventare irreversibili, come spesso la cronaca ci racconta. 
Quando uomini e donne parlano tra di loro, ciascuno si attende una risposta precisa: la conferma delle proprie sensazioni.  Quando la risposta non è conforme alle aspettative personali, diventa un ostacolo. Subentra la rabbia, l’imbarazzo e, peggio ancora, la disapprovazione. 

martedì 10 novembre 2015

Se fossi geografia



Se fossi geografia sarei un’isola. Non un’isola grande, e neppure troppo vicino al continente, come la Sicilia, o facilmente raggiungibile da un’isola vicina, come la Corsica. Sarei un’isola sperduta in mezzo al mare, lontano dalla terraferma. Già la terraferma. Così si chiama il continente, infatti l’isola non è una terraferma, è una terramobile in balia delle onde del mare e non ha nessuna polizza di assicurazione contro il rischio di essere trascinata via dalla corrente, sta lì senza alcuna protezione, e il mare può farne quello che vuole, la può percuotere d’inverno oppure accarezzarla con la bella stagione, ma lei non se ne cura dell’umore del mare, della forza del vento, del rischio di essere spazzata via. Cazzuta e impertinente.
Se fossi geografia sarei un’isola impervia, non di facile attracco per le imbarcazioni, di porto non se ne parla proprio, perché vorrei stare lì, tranquillo, a rischiare di vivere la mia vita libera, senza i confini ristretti di chi ti sta troppo vicino, senza l'appiglio sicuro di una penisola e senza correre il rischio che uno si svegli una mattina e dica: andiamo un po’ su quell’isola.
Sarei un’isola dove, se decidi di venirci, non lo puoi decidere dalla mattina alla sera, lo devi pianificare per tempo, e prendere tutte le precauzioni, e sapere su quale lato dell’isola puoi attraccare, perché non tutti i lati sono favorevoli, e forse devi lasciare anche la barca un po’ più lontano e raggiungerla con una barchetta più piccola, dove al massimo ci vanno due, tre persone. Sarei un’isola piccina, però alla fine, sarei ospitale con quei pochi, pochissimi che dovessero decidere di affrontare il viaggio, l’attracco e la visita ad un’isola piccola e nemmeno poi così famosa, perché la vita mi ha insegnato che gli sforzi di chi passa a farti visita vanno sempre onorati.
Si, se fossi geografia sarei l’isola di Pitcairn, quella dove si rifugiarono gli ammutinati del Bounty. Perché proprio Pitcairn? Perchè è l'isola che si trova ad una distanza superiore a quella di qualsiasi altra isola dalle coste continentali, e non esistono approdi né aeroporti.
Forse anche perché ancora oggi, su quell’isola ci sono 67 abitanti in tutto, discendenti diretti di quelli che si ammutinarono.
Sì, se fossi geografia credo che vorrei essere un’isola piccola e cazzuta come quella, avere quel nome lì, un nome che non conosce nessuno, tranne 67 persone che la abitano, e anche se porto un altro nome ha poca importanza, in fondo.
Se decidi di venire, ti dò le coordinate giuste, potremmo passare del tempo a chiacchierare con qualcuno di quegli abitanti e farci raccontare com'è andata quella storia dei loro avi che si ammutinarono e che poi rimasero lì, a guardare il mare per anni. In fondo per vivere bene ci basta una storia. Non venite più di due o tre però. Da queste parti parlano sottovoce. 

lunedì 2 novembre 2015

Racconto per "Women in Wine" - Venosa, 30 ott. 2015 (*)

    

1.
Lavoro in un wine bar che si trova in una stradina adiacente alla piazza principale del mio paesino. Poche migliaia di abitanti, d’inverno il clima non aiuta, le strade sono spesso deserte, si esce poco, ma certi sabato sera d’estate ci sembrano il Carnevale di Rio.
Un pomeriggio di fine estate, mentre stavo pulendo la macchinetta del caffè, entrò nel locale un uomo con una piccola guida della Basilicata in mano e, senza nemmeno salutare, chiese direttamente: "un caffè macchiato". Inversamente alla sua palese fretta, mi girai lentamente, lo guardai e, ignorando per un attimo la sua richiesta, lo accolsi con un convinto: "Buongiorno!"
Lui, mortificato, si scusò, disse che stava andando di fretta perché stava per partire il pullman per il castello di Venosa. Allora sorrisi, mi asciugai le mani sul grembiule e gli dissi:
- Il suo pullman ormai è partito, ma non si preoccupi, ne partirà un altro tra trenta minuti esatti. C’è una strana puntualità nei nostri paesini, ma lei è fortunato: il caffè la ripagherà della delusione. Io mi chiamo Sonia. Lei da dove viene?
Mi disse di chiamarsi Emilio, che veniva dalla provincia di Torino. Che aveva una compagna lucana e che era venuto in Basilicata per la prima volta per cercare di chiarire qualche incomprensione..
E certo, i rapporti a distanza.. E poi lei doveva avere proprio un bel caratterino….
- Allora – dissi -, visto che non le posso fornire alcuna indicazione sulle donne locali perché ci ha già avuto a che fare, adesso che ha qualche minuto, se vuole le dico un attimo cos’è questa terra, che invece ancora non conosce. A lei la pizza piace?
Fece una faccia strana, come per dire: "che c’entra la pizza?", ma rispose: "Si, certo".
- Bene, allora le spiego la Basilicata come se fosse una pizza. Una capricciosa. Ha presente, no? Quella con un sacco di ingredienti.
L’uomo mi guardava come se avesse appena visto una marziana.
- Si, perché, vede, nella nostra Basilicata a nord ci trova i carciofi, verdi come i boschi del monte Vulture e i laghi di Monticchio, due laghi asimmetrici, come se il pizzaiolo non avesse ben dosato le proporzioni.  A ovest ci trova le olive verdi come i monti dell'area di Potenza, con il capoluogo, città verticale per definizione.  A est la pizza si fa morbida e pianeggiante, e si riempie di gustosa mozzarella come i bianchi calanchi di Aliano e la piana di Matera, dando vita ad un tripudio di gusto e sapori che la riportano alla più antica delle civiltà dell'uomo.
E infine il sud della pizza – pardon, della regione - degrada verso il mare. Il Tirreno e lo Jonio la bagnano, cullandola come l'olio che ne assembla gli ingredienti. E io, da buona lucana, su questa pizza capricciosa - lei mi permetterà – aggiungo un bel tocco di lucanità, e cioè un paio di peperoni cruschi sbriciolati, rossi come i nostri tramonti.
E lì lo guardai direttamente negli occhi:
- Ma lei li conosce i peperoni cruschi??
Dalla faccia dedussi che non ne aveva nemmeno sentito parlare.
- Non si preoccupi, a Venosa certamente li troverà e li gusterà. Comunque, lei in questi posti ci ritornerà. Capita a tutti.
A quel punto mi alzai e tornai dietro al bancone. Lui mi guardava meravigliato, un po’ frastornato, ma con l’aria incuriosita.
- Io oggi ho la mezza giornata libera, vuole che la accompagni io?
Continuava a guardarmi piuttosto meravigliato, ma dall’espressione non mi sembrava che la mia offerta gli dispiacesse.
- Mi dia solo il tempo di mettere a posto delle cose. E ovviamente di prepararle il caffè. Macchiato, vero?

2.
Entrati al castello di Venosa, fummo investiti da odori e rumori tipici di una festa dedicata ai sapori lucani. Emilio mi disse che una delle ultime volte che aveva sentitola sua ex compagna, prima che non rispondesse più al telefono, gli aveva comunicato che gestiva uno stand proprio a questa festa, ed era quello il motivo per cui si era precipitato qui.

giovedì 22 ottobre 2015

Cosa possono fare i cittadini per lo stato?



Caro Presidente, era bella e suggestiva quella sua frase, citata da ogni generazione di politici e politicanti dagli anni 60 ad oggi, che recitava: "Non chiederti cosa l'America può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per l'America". Un aforisma che è stato adottato come simbolo per molte democrazie occidentali. Nulla da dire sul principio, che inneggia ancora oggi alla capacità del cittadino di rendersi protagonista di una vita più attiva e collaborativa senza pretendere l'assistenzialismo a cui specie in certe latitudini del mondo siamo tristemente abituati.
Bene Sig. Presidente, lei non lo sa, ma le vorrei dire che il mondo è cambiato. Quei paesi che avrebbero dovuto esportare la democrazia sono vittime di sistemi di governo capestro nei quali i cittadini sono stati infilati a testa in giù come bottiglie vuote per scolarne il sangue fino all'ultima goccia, costringendoli a dare molto di più di quello che viene loro restituito in termini di servizi e di assistenza che una democrazia normale dovrebbe garantire.
Poi c'è quel paese, l'Italia - se lo ricorda? - nel quale il suo aforisma continua ad essere sulla bocca di molti governanti, ma il punto è che loro, per primi, si considerano al di sopra di qualunque sforzo che quotidianamente chiedono ai loro cittadini, determinando una frattura sociale che oggi è diventata abissale. 

Caro Presidente, lei al mondo manca. Non solo per la sua dialettica o per le sue abilità diplomatiche, ma per il suo esempio. Lei che si è battuto per un benessere più largamente distribuito, lei che combattè la discriminazione razziale, lei che ispirò una istruzione allargata anche ai poveri, oggi sarebbe deluso da questo mondo.

lunedì 19 ottobre 2015

Un uomo chiamato Utopia




Quando vedi una foto del passato 
quel suolo da Mosè un tempo calpestato 
ribussa come un mantra nei tuoi pensieri 
la voglia di rimettere le lancette al tempo di ieri. 
Perchè in certe zone se qualcuno vuole ancora amarsi 
è talmente distrutto dal dolore
che le sue lacrime non bastano nemmeno a dissetarsi.
Sembra una guerra contro razze aliene: 
e invece sono uomini inferociti che somigliano alle iene 
e continuano ad uccidere finchè non gli conviene.
C'era un uomo con la pipa e la bandiera
che credeva che la pace non avesse frontiera, 
decise allora di vivere in quella maledetta striscia
che la puzza di cadaveri ormai non fa più notizia
Lì fu catturato da uomini di una milizia 
che invece di persone sembrano immondizia. 
L'uomo con la pipa, ancora prima di morire
sperava ancora che quella maledizione potesse finire
e anche quella volta, quando gli legarono le mani, 
disse sottovoce ai suoi giustizieri: Restiamo umani.
Questa è una storia che a raccontarla sembra fantasia
ma è solo la storia di un sogno, di un porto e di un marinaio
che da allora prese il nome di Utopia.

mercoledì 14 ottobre 2015

Miglioramento dell'accoglienza urbana



Il marketing urbano è l'insieme di azioni promozionali facenti parte di un piano strategico di una città volte ad attrarre decisioni di acquisto, investimenti esterni e il maggior numero possibile di visitatori-turisti. In realtà l'insieme di tali strategie è altresì volto ad incoraggiare decisioni di spesa anche da parte delle popolazioni endogene al territorio, al fine di muovere le economie interne in un meccanismo keynesiano di aumento della circolazione di beni e servizi che di per sè produce ricchezza per le aziende locali.
Per giungere a questo importantissimo obiettivo, una delle capacità della direzione urbana di marketing (se non esiste, createla anzichè fare nomine "ad capocchiam" che non aggiungono e non tolgono nulla alle reali esigenze della cittadinanza) è quella di mettere in campo azioni promozionali volte a far passare il messaggio che il tessuto economico e produttivo locale garantiscono gli stessi standard di qualità di servizi e di prezzi che possono essere trovati fuori.
Questo delicato ed importantissimo passaggio viene affidato a delle "partnership collaborative", ovvero una serie di azioni basate sul superamento dell'individualismo one-to-one a vantaggio della collaborazione tra aziende locali e della proposizione di servizi al cliente finale finalmente basati su prezzi competitivi e su elevati standard qualitativi, con il ricorso alle nuove tecnologie informatiche che facilitano cliente finale nelle proprie decisioni di spesa.
Tutto questo segna il passaggio verso quella che può essere definita la città attrattiva.
Sul quale argomento, se viene individuato un target specifico (es.: turismo culturale) bisogna esser capaci di creare sinergia nelle proposte da offrire alla cittadinanza ed ai suoi visitatori, inclusi tutti qugli eventi ispirati alla tradizione localistica in grado di suscitare curiosità da parte di un pubblico già sensibile a tale tipologia di manifestazioni.
Senza affondare il discorso sugli aspetti promozionali (poco o per nulla curati), il discorso da fare è che senz'altro occorre di più in termini di qualità di servizi da erogare al cliente finale.
La prima riflessione da fare in questa città – capoluogo caratterizzata da disfattismo e pessimismo circa le potenzialità della stessa di essere "interessante" per un pubblico di potenziali visitatori, è quella di superare tale visione leopardiana e catastrofica e cominciare a pensare ad una città in grado di erogare servizi di qualità ed efficienza, anche se non abbiamo nè il maschio Angionino nè la Galleria degli Uffizi. C'è bisogno che tutti, ma proprio tutti, dal direttore dell'albergo, al ristoratore, al commerciante di prodotti tipici, per finire al barista, siano chiamati a diventare degli esteti, ad essere coinvolti nelle tante ed interessanti iniziative locali che scaturiscono da vari movimenti associativi, impegnandosi a mettere in campo pratiche che abbiano come obiettivo l'eccellenza da praticare nella città-accogliente.
Quindi, in definitiva, non è che bisogna per forza essere città "turistica" per attirare, ma già l'attuale natura del capoluogo lucano, che intercetta oltre 25.000 presenze quotidiane per ragioni di studio o di lavoro, deve essere in grado di offrire una migliore qualità del servizio - la cui conseguenza si traduce in benefici immediati, risorse economiche e posti di lavoro per il tessuto produttivo locale -.
L'analisi degli arrivi e delle presenze, ovvero quella serie di dati quantitativi che non hanno nulla a che vedere con l'erogazione di servizi, deve essere sostituita da dati relativi alla gestione della qualità dei servizi, per aumentare sensibilmente la possibilità di accrescere il vantaggio competitivo dei servizi erogati dalle singole imprese e dalla città nel suo complesso.
Ma in che cosa una moderna città che vuole porsi all'attenzione di un vasto pubblico deve fare attenzione rispetto all'argomento della qualità dei propri servizi?

giovedì 1 ottobre 2015

Roger Waters The Wall 1 ottobre 2015


Caro Ruggero, è chiaro che un colossal rock di queste proporzioni convince.
La storia musicale che ti porti dietro convincerebbe chiunque, figurati noi altri ultra cinquantenni, che ti seguiamo da quando eravamo ancora in fasce e le puntine Sennheiser già ballavano con Interstellar Overdrive e Arnold Layne.
Convinci perfino le generazioni dei ventenni di oggi che di Syd non sanno una beata cippa, eppure cantano con il dito alzato Comfortably numb e si commuovono con Hey You.
Sappiamo tutto di te, delle tue paranoie, di quella stramaledettissima seconda guerra mondiale che ti ha fatto male ma, non contento di aver realizzato The Wall, hai convinto anche gli altri membri della band a farne anche un seguito che si intitolava The Final Cut e che naturalmente non ebbe neppure lontanamente lo stesso successo.
Sarà stato che l’idea di privarti di quel sant’uomo di Richard Wright alle tastiere (solo perché non voleva anticipare il suo rientro dalle vacanze), ti ha tolto un po’ di ambientazione pinkfloidiana, o semplicemente volevi riaffermare una leadership mai in discussione?
Adesso che ho visto il tuo ennesimo The Wall, te lo posso confessare: c’ero fin dalla prima mondiale del film a Londra nel 1980. Ero lì in vacanza con il mio amico Attilio, e quel pomeriggio a Soho appena vedemmo il manifesto del film non ci perdemmo un attimo a decidere che in quella sala dovevamo esserci anche noi. La musica la conoscevamo già (il disco era uscito un anno prima), ma le immagini che scorrevano in quella sala londinese, quei suoni incredibili e soprattutto uno splendido Bob Geldof nel ruolo che hai dimensionato a tua immagine e somiglianza, credo che resteranno nella mia mente per sempre.
Poi ho visto (questa volta per televisione) lo spettacolo da solista di The Wall che hai portato in giro per l’Europa partendo dalla caduta del Muro di Berlino nel 1990. Ottima operazione di marketing!
Lì, oltre al muro, avevi già smantellato la band, ma quel concerto si avvalse di ospiti veramente incredibili, quali Bryan Adams, The Band, Cyndi Lauper, Joni Mitchell, Van Morrison, Sinead O'Connor, gli Scorpions e altri. Dicono che quella sera ci fossero oltre 400 mila spettatori: non so quanti concerti hanno avuto un riscontro simile.

martedì 29 settembre 2015

Davanti alle poste tanta gente




Così inizia una canzone di Venditti. No, quella era la scuola. Si, ok, ma adesso siamo fatti grandi e alle 8,30 la prima campana suona all'ufficio postale. Al di là della location, il punto è che a guardarsi intorno, una logica o, come direbbe qualcuno, un senso, questa società dell'iper-informazione, sembra proprio non averlo.
Ciò che più mi colpisce sono i toni. Un tempo erano discorsivi, più o meno pacati, si cercava il confronto, lo scambio, perfino la cortesia era la norma.
Invece oggi, esattamente come accade per l'informazione, anche la condivisione si è frammentata, sminuzzata come le carotine Julienne, in mille pezzettini lunghi e sottilissimi, che rimetterli assieme non si può più. E il dibattito si inasprisce, si abbassa il volume del rispetto e si alza quello del vaffanculo facile. La tolleranza ha le ore contate.
Debordazioni continue dei limiti di quella che una volta si chiamava buona educazione, la pazienza è schiacciata al muro come un insetto fastidioso. Negli uffici pubblici, in mezzo al traffico, sul web e in qualunque occasione in cui semplicemente si addiviene ad un contatto tra due o più persone, la soglia della tolleranza è talmente sottile che ti si avventano alla giugulare al minimo accenno di far valere i tuoi diritti.
Assistiamo quotidianamente a pericolosi fermenti di collisione dialettica in ogni dove, non solo sui social network (nei quali è facile nascondere il dito omicida dietro uno schermo illuminato).
Una trasmissione tv, un servizio giornalistico, perfino delle banali osservazioni su un social network si caratterizzano per attacchi reiterati, guerre di religione, battaglie di vita o di morte. E tutto questo al solo scopo di prevalere dialetticamente!

lunedì 14 settembre 2015

Ma perchè ci applicavamo così poco?

Inizia la scuola.
Si fanno strada nella mente ricordi di odori del legno usurato dei banchi, dell’inchiostro sulle dita, delle merendine sotto banco: profumo di cacao o di paneemortadella, a seconda dei casi.
La corsa a prendere l’ultimo banco. Da lì il professore non ci vedrà, si pensava.
Ore, ore, ore di lezioni, parole, registri, poi a un certo punto la professoressa interrogava, silenzio in classe, gli occhiali nascondevano pupille severe che scorrevano l’elenco, il cuore di tutti batteva all’unisono creando un rumore che sembrava di stare in discoteca tu-tum, tu-tum, tu-tum, e ci si nascondeva dietro quello che stava avanti, come se anche il cognome sul registro si potesse nascondere da quella lista. Ma non era possibile.
I professori? Ci sembravano una strana razza. Per fortuna non tutti. Infatti all’epoca quelli che si distinguevano ce li ricordiamo ancora oggi con piacere. Erano quelli che ci guardavano negli occhi un secondo di più, prima di esprimersi su come eravamo andati. Verificavano se eravamo pronti ad assorbire il colpo.
C’erano altri insegnanti che "il programma deve andare avanti", a qualunque costo, chi non capiva rimaneva indietro. Affari suoi. Insegnanti che raramente si chiedevano cosa c’era nella testa di quel ragazzo che cresceva ogni giorno di più, che aveva difficoltà perfino a pronunciare il suo nome a voce alta per la timidezza, che ogni tanto non veniva a scuola e quando ritornava dopo qualche giorno, era più alto di 10 centimetri e sulla giustifica portava scritto: “indisposizione”, ma era solo febbre.
Eppure ancora assistiamo a studenti massacrati quotidianamente da nozioni che non arrivano mai a destinazione a causa di spiegazioni che durano ore, contro una capacità di attenzione e concentrazione da parte della classe che raramente supera i quindici-venti minuti.

martedì 8 settembre 2015

Un barlume di verde


Quando finisce l'estate, eppure hai la certezza che non sia ancora passata, quando le giornate si accorciano ma sono ancora abbastanza lunghe da stare in giro fino a tardi, quando il tepore sulla pelle ti dá ancora un brivido, quando le piogge non sono ancora così lunghe da farti pensare all'autunno, quando ti senti coinvolto da quel momento che sta tra il caldo e il l'umidità: allora è arrivato settembre. Dicono: Ecco, adesso sì che è finita l'estate.
Dicono: E adesso come lo affrontiamo l'inverno?
Dicono: Dura sempre troppo poco. Come quando fai la scampagnata la domenica, e ti svegli presto, e l'aria del bosco si rinfresca prima e quando il sole tramonta ti sembra di essere lì solo da pochi minuti. E devi venir via. Tutto sta nei colori. Sono quelli che ti fregano. Ingannano. Quel verde incipiente dei prati, delle colline che fiammeggiano sulla strada, non potevi vederlo con il sole forte. Ma adesso che il sole si è abbassato un pò, lo noti di più. Il verde.
Per cadere le foglie è ancora presto. Per il marrone è ancora presto. Adesso è il verde l'attore principale, è il suo momento.
Dico: Hai notato che di questi periodi anche gli occhi sono più verdi? Quel colore ti si stampa negli occhi come un francobollo, se tenti di scollarlo, si tira via tutto l'iride, allora lo lasci lì. Incollato, appiccicato. Non fa male. Ti dà luce, ti aiuta a capire che quel calore bestiale è partito per altri posti.
Dicono: adesso dobbiamo riprendere le coperte.
Dicono: i maglioni.
Dici: E se non ci sarai più?
Dico: Ci sarò. Forse ci sarai anche tu. Farai molti giri in macchine dai vetri appannati, siederai con una scusa sui sedili posteriori per stare più larga, andrai in posti vecchi che conosci già e non ci troverai nulla di cambiato, e poi andrai in posti nuovi che ti sorprenderanno, e nuovi occhi ti stupiranno, nuovi colori ti si stamperanno negli occhi, e forse penserai che non ti si sono incollati, e invece si, te li vedono tutti. Ma poi cadranno con la primavera. Come i dentini di un bambino, per lasciare il posto a nuovi colori. E non ti faranno male. E l'estate ti riporterà indietro assieme a quel vento tiepido di aprile che passa silenzioso sotto le porte chiuse.
Dici: Ma sei sicuro?
Non rispondo e ti guardo soltanto, con il mio solito, mezzo sorriso. Poi guardo fuori, la campagna. Negli occhi, inevitabile, un barlume di verde.

venerdì 31 luglio 2015

Fotografie scritte



Già, una stilografica. Segno di un tempo che quasi non c'è più.
L'inchiostro sostituito da quadratini bianchi da pigiare piano, che poi, magicamente, diventano parole.
Invece l'uso della penna è un'arte prima di tutto amanuense. Dopo aver imparato a scrivere, dovevi anche scrivere bene, che è un'operazione di per sè artistica. Indipendentemente da cosa scrivi.
E' artistico perfino compilare la lista della spesa, se ci metti attenzione, e dedizione.
Un etto di macinato, due filoni di pane.
C'è quello strano e personalissimo modo di impugnare la penna con tre dita - pollice, indice, medio - e poi iniziare questo strano rito di muovere e roteare e piegarla sulla carta fino a formare una serie di segni che, accostati uno all'altro - al massimo separati ogni tanto da un piccolo spazio - davano il senso compiuto alla frase.
Era un fenomeno così individuale, soggettivo, che a volte chi leggeva doveva interpretare quei segni, messi così, a seconda del proprio gusto, del proprio stile.
Oggi invece.. tic, tic, tic, barra spaziatrice, tic, tic, tic.
Non c'è più bisogno di interpretare la scrittura, tutto uguale, tutto omologato, nessuna possibilità di non capire cosa c'è scritto.
Va bene lo stesso, c'è solo un pò meno fantasia, meno tecnica, il polso non si piega, non rotea per fare curve, punti, virgole, segmenti orizzontali sulle "t" o nelle "z", e via discorrendo.
Quelli che scrivono un sacco di parole che poi raccontano delle storie si chiamano "scrittori", e poi quando sono bravi qualcuno sente di contraddistinguerli ancora meglio, dicendo: "con la S maiuscola".
Poi ci sono quelli che scrivono un pò meno parole, sono più descrittivi, più esatti per così dire, e parlano di cose meno allungate nello spazio e nel tempo.
Li chiamano poeti. In genere, non distinguono tra iniziale maiuscola e minuscola, come se fosse che tutti hanno una loro precisa qualità.
Cosa raccontano i poeti? Raccontano storie anche loro, certo.
Solo, sono storie più piccole, ma sempre intense, forti.
Per il fatto di essere brevi, devono avere una cura ancora più puntuale delle parole usate.
I poeti sono, innanzitutto, dei ricercatori di parole, poi anche di sensazioni.
Il poeta fa una fotografia, lo scrittore fa un album di fotografie.
Il poeta fa un cortometraggio, lo scrittore un lungometraggio.
Il poeta é la sintesi, lo scrittore é l'analisi.
Il poeta ti porta in un luogo, lo scrittore ti porta attraverso una moltitudine di luoghi.
Il poeta é un centometrista, lo scrittore un maratoneta.
Due mondi diversi, ciascuno con la propria, ineluttabile identità.

domenica 12 luglio 2015

Suda l'anima


Suda l'anima,
negli anfratti metafisici,
i contatti immaginifici di scenari quasi onirici.
L'anima a sud,
fa parabole incantate, parole incatenate.
Lo sguardo fotografa, prigioniero dell'afa.
Suda l'anima
mentre i raggi dell'etere
trafiggono palpebre leggere.
A nord dell'anima,
la pelle si sbriciola, la mente si isola.
Nessun refrigerio, solo la musica ottempera l'aria, 
regina totale di atmosfera coloniale.
L'anima suda,
di materia e calore.
Più a sud dell'anima, 
come se fosse amore.

giovedì 9 luglio 2015

Scrivila Tu


Non basta sentirti emozionata leggendo le parole di un libro.
Non basta sentirti identificata con quello che ha usato la sua biro.
Non basta provare un fremito nel petto 
perché senti che ti mancano dello stesso rispetto.
Prendi la tua penna e lascia che esca quello che hai dentro.
Lascia che le parole fuggano via col vento.
Togli il freno a mano alla tua fantasia e lascia volare libera la tua poesia.
Ti condurrà per sentieri che a volte hai già provato 
ma che sono sconosciuti ai più: scrivila tu, scrivila tu, scrivila tu.
Non prendere a prestito le parole che qualcun altro ha scritto
rimuovi le macerie e non temere di entrare con te stessa in un conflitto.
E non dar retta a chi ti dice che non vale niente: 
la fantasia e l'amore albergano nel cuore di tutta la gente.
E non c'è nessuno che ti può rappresentare meglio, 
scava e non fermarti al primo mattone pensando che sia un appiglio.
Scrivila tu, con il tuo pugno, il tuo cuore e il tuo coraggio, 
e non avrai da temere alcuno sbaglio.
Ti condurrà per sentieri che a volte hai già provato 
ma che sono sconosciuti ai più: scrivila tu, scrivila tu, scrivila tu.
Alleluja.

lunedì 1 giugno 2015

Qualcuno dice del libro

E' sempre gradito leggere i pensieri di chi ha avuto il piacere di leggere. Grazie



Maria Teresa D'Aiuto : "La fervida immaginazione dell'autore non impedisce la concretezza del discorso portato avanti con tenacia. Solo apparentemente interrotto dalla suddivisione in racconti,malgrado il gioco stilistico dei colpi di scena,il testo lascia sempre affiorare il filo conduttore,che è la sfida alla prosaicità del mondo ;il sogno di un rinnovato rispetto per la terra,per la vita,per gli uomini,in un clima di semplicità ed onestà. La narrazione è volutamente lenta "come lento è chi si piega per accarezzare una margherita"(T.Guerra). Come chi scruta con attenzione ogni angolo ed ascolta ogni fruscio della natura per impadronirsene. Non stanca questa tecnica, anzi prende per mano il lettore per ritrovare assieme all'autore quel qualcosa di poetico, di musicale, nell'emozione di un ricordo di voci di amici e di profumi di terra, di salsedine, di vino. De Angelis è molto abile nel ricreare ambienti ed odori: colpisce l'atmosfera impregnata di legno vecchio dei banchi di scuola, intrisi di inchiostro e di grafite delle matite. In questi ambienti abilmente creati si muove un'umanità sofferente che pian piano sa riprendere a vivere con uno scatto di amor proprio. Qui è la fiducia che sottende tutto il volume. L'Autore sfida il dolore e crede nella capacità dell'umanità che anima il suo romanzo, tutta di notevole spessore psicologico. Uomini ed in particolare Donne, che hanno suggerito l'originale titolo: "quelle che vedono tanto più avanti", risolutrici di situazioni complesse ed anche drammatiche. Può venir voglia di rileggere il libro di De Angelis perché è scritto in modo agevole, piano, senza concessioni a civetterie culturali e perché è un guscio di emozioni. Qui, e non è poco, le donne sono trattate con stima e rispetto".

Angela Carissimi: Te l’ho mai detto che il tuo libro l’ho letto con molto, ma molto piacere? Mi è piaciuto. La tua scrittura l’ho trovata incantevole, semplice, fluida e coinvolgente… con una particolare capacità di narrare i fatti o descrivere luoghi associandoli ad altre situazioni che suscita interesse e induce a meditare. Altrettanto ho apprezzato la particolare abilità di inserire nella narrazione al posto giusto il pezzo musicale e il modo in cui riesci a trasmettere i tuoi desideri, i tuoi vissuti, i tuoi pensieri molto, ma molto profondi sui particolari valori... attraverso la descrizione dei personaggi che filtrano la scrittura ed emergono trasparenti. Le parole aleggiano e volteggiano nella mente del lettore. 

Chiara Lippolis: "Donne che spostano il traguardo" è per me un libro emozionante, autentico, intenso, scritto con il cuore, che tocca le corde più profonde dell'anima. Un libro che ha il dono di far riaffiorare, in chi lo legge, ricordi custoditi chissà dove, attraverso una danza leggiadra di immagini-fotografie, descrizioni di una natura selvaggia e incontaminata, o violentata dalla furia e follia dell'uomo, e di tanta buonissima musica. Un'antologia del complicato e talvolta inaccessibile universo femminile, delle difficoltà delle relazioni di qualunque tipo, ricca di umanità, tatto, delicatezza, sensibilità, pathos e di quei valori essenziali e primitivi, figli di ancestrali codici di comportamento di etica e di rispetto, oggi purtroppo sommersi dalla imperante volgarità dell'era della tecnologia e del silicone. Storie, che, sembra difficile a credersi, sono state partorite dalla mente dalla fantasia e dalla sensibilità di un uomo.Un libro scritto con apparente semplicità linguistica, ricercato ma senza inutili fronzoli di maniera, il cui stile piacevole e scorrevole crea un immediato feeling emotivo con il lettore, e che lo proietta con incredibile e ammirevole empatia, dentro ogni racconto. Insomma un libro che ha la capacità di farti sentire protagonista di almeno uno dei racconti narrati. Un libro scritto forse più per gli uomini, che insegna loro a non temere le donne, ma ad averne cura e rispetto, proprio come fa il suo autore.

martedì 12 maggio 2015

Man-tenere l'amore


L’amore non è un contatto fugace di sguardi
Spingendo un carrello nel supermercato
Alla cassa sei pieno di mille riguardi
Forse pensi: sono già innamorato.
Poi nel caffè le parole sembrano accordi
Suadenti le voci senza ricordi.

Man-tenere l’amore vuol dire tenerlo per mano
è come il vento che regge un aeroplano
è una cosa di piombo, di ferro e di acciaio 
una cosa grandiosa di cui non senti alcun peso
è un treno che esce fuori binario 
ma nessuno esprime un verdetto contrario.

Man-tenere l'amore è un arte per pochi
È un vuoto a perdere senza alcun reso
È un fatto di testa e di cuore ma senza più giochi
Man-tenere l’amore è un conto in sospeso.

Man-tenere l’amore vuol dire tenerlo per mano
è come il vento che fa cadere un aeroplano.
Nel caffè le parole sono diventate stonate
e le voci non sono più pronunciate.

giovedì 26 marzo 2015

Presentazioni di Donne che spostano il traguardo

PRESENTAZIONE 7 MARZO 2015

  
              

PRESENTAZIONE per BENEFICENZA ANT - POTENZA 28 MARZO 2015









SERVIZI TV

La Nuova tv Servizio di Carla Zita

TRM Network Servizio di Nico Basile

Servizio RAI TG3 Basilicata

martedì 24 marzo 2015

Booktrailer Donne che spostano il traguardo



Interpreti: Giusj D'Alfonso, Donata Manzolillo, Alice Verrastro, Elio Coluzzi.
Riprese e montaggio: Donato Colangelo-Lucania.tv. 
Musiche: Renanera.

Girato a Potenza in Contrada Cavaliere e presso Ristorante C'era Una Volta
Regia: Dino De Angelis



Donata Manzolillo

Giusj D'Alfonso
Alice Verrastro

mercoledì 4 marzo 2015

Fidarsi della fantasia


Ebbene si. Ci sono ricascato.
Va bene lo ammetto, me ne pento. Ma intanto l'ho fatto. E non si torna indietro. Non al punto in cui sono arrivato.
C'è un limite oltrepassato il quale, riavvolgere le lancette del tempo è impossibile.
E io quel limite l'ho passato.
Non ci riesco. E' più forte di me. Se vedo una cosa, o se sento una cosa, perfino se vivo una cosa che mi segna - non deve essere necessariamente qualcosa di eccezionale o di particolare, ma di sicuro mi deve dire qualcosa -, poi mi viene voglia di scriverla.
Di unirla ad altri frammenti scritti prima, o ad altri che verranno dopo.
E così nasce la dipendenza. Se son capace di uscirne? Si, credo di si. Dipende da quel che offre il mercato. La vita. Se abbia di meglio da fare che stare stupidamente ad osservare il mondo, oppure se concentrarmi su quello che dovrei fare io.
Ma intanto è diventata una cosa che a tratti non si può controllare.
Mi muovo con un taccuino con un elastico. No, non c'entra Hemingway, dai, non volevo dire quello. Non esageriamo adesso. Ma la memoria da tempo mi fa brutti scherzi, e allora la frego con la penna e la carta. A volte vorrei saper disegnare, cazzo. Invece niente: mi escono solo sgorbi. Non si capisce cosa volevo dire. Mi resta solo la parola per immortalare un pensiero su carta.
L'importante è che non siano pezzi di carta sparsi. Quelli fanno una brutta fine, lì in fondo alle tasche dei pantaloni. Ho provato anche a dar loro una dignità diversa, mettendoli nel portafogli. Cioè nel posto dove si tengono le cose importanti. Carte di credito, soldi, l'ultimo messaggio che mi ha scritto lei. Ma col tempo questi pezzetti di carta perdono di importanza, sovrastati dalle altre carte, mentre immortalate nell'agendina, non perdono mai valore, le ritrovo ogni volta che voglio. Ogni cosa deve stare al suo posto.
Dicevo? Si, che ci sono ricascato.
Non è un brutto vizio, alla fine. Mi fa stare bene, mi commuove perfino, a volte. Se spero che piaccia anche ad altri? Non importa. Purchè abbia regalato a me dei momenti intensi.
A cosa serve, in fondo vivere, senza vivere certi momenti?
E che importa che Alfonsina, Moran, Flaminia, Mary Louise, Sandro e la professoressa Magnani non esistano nella realtà?
Io posso dire che queste persone le ho conosciute, in un mondo di fantasia, forse, ma erano così reali da svegliarmi di notte e farmi alzare per andare a vedere come stavano, se tutto era a posto, oppure ancora lottavano con quella malinconia passeggera..
Scrivere è un'illusione, ma solo fino a un certo punto. Certe illusioni fanno più male della realtà, a volte.
E' proprio vero che non ci si può fidare nemmeno più della fantasia. E invece io ho scelto di farlo. E non mi è andata nemmeno così male.
Buonanotte a voi. E buonanotte a me.
In fondo esserci ricascato, non è stato poi così sbagliato.

martedì 3 marzo 2015

Il benefico Cerbero della musica italiana d'autore


E' un disco della maturità, del lavoro di squadra, della condivisione totale, della rinuncia al protagonismo smodato che caratterizza ogni campo del vivere quotidiano. In un mondo dove si parla di continuo di team work e di condivisione, questi tre menestrelli romani hanno accantonato l'egoismo e il primattorismo di esibirsi in solitaria per mettere a sistema le loro abilità di compositori, di esecutori, di poeti.
Ciascuno, con la propria sensibilità, ha messo il proprio 33% al servizio del progetto comune, ha accantonato l'egoismo di occupare il palco da solo, accontentandosi di una porzione di ciascuna canzone, ha rinunciato ad arrangiare il brano "alla sua maniera", secondo la propria anima musicale, e si è piegato al volere di una maggioranza resa perfetta dal numero dispari.
Ed è una lezione non solo musicale, ma di vita.Una lezione che ovviamente parte dalla musica, ma poi dà una carezza alla letteratura ("so immaginare una storia intera senza una sola parola vera"), si fidanza con la poesia ("L'amore non esiste, ma esistiamo io e te e la nostra ribellione alla statistica, un abbraccio per proteggerci dal vento"), per annegare dentro il rock ("Vi presento il mio avversario, mi assomiglia più di un po', ha il mio identico frasario, ma lo spiazzerò"), per finire addirittura (è la sorpresa finale) dentro al cinema. Il rock si trova certamente dentro molti arrangiamenti, dentro le parole, perfino dentro l'interpretazione che contraddistingue in maniera singolare ciascuno dei tre componenti di questa band che ogni tanto gioca a ritrovar se stesso.