Ignari, felici di quel poco che avevamo, e anche di quello che non avevamo, ma che non costituiva un miraggio. E nemmeno un desiderio. Non ce l'avevamo e basta. Funzionava così.
Una cosa che non era alla nostra portata semplicemente non si poteva avere. Punto.
Chi se ne frega, c'era il basket, ed era un motivo sufficiente a tirare avanti.
Poi c'era il palazzetto Coni che non era solo un campo di gioco, era un luogo di incontro, di chiacchierate, di socializzazione, come si direbbe oggi.
Era molto di più di un semplice campo rettangolare (piuttosto piccolo, a pensarci oggi), dove correre dietro quella palla arancione che aveva ancora tutto un colore, con delle striature lungo il perimetro che la disegnavano come fossero degli spicchi di arancia.
Si, un'arancia, solo più grande, più tonda e pesante. E perfetta: avevamo imparato a maneggiarla con abilità, avevamo fatto numerosi esercizi di presa, di trattamento, di destrezza. E poi i fondamentali, le partenze, i passaggi e quel mix di incredibile scienza applicata allo sport che si chiama biomeccanica, tutto per far entrare quell'arancio sproporzionato dentro un anello, anch'esso di colore arancione.
Ma alla fine avevamo imparato, e anche bene, quando una cosa ti piace i miglioramenti che fai sono impressionanti, e alcuni di noi centravano quell'anello con apparente semplicità, facendo diventare facile qualcosa che ai non addetti ai lavori sembrava impossibile.
Così anche quella domenica eravamo lì. La domenica è giorno di partite. Novembre inoltrato, pieno girone d'andata, squadre ormai rodate perfettamente, meccanismi consolidati, la squadra si muoveva in sincrono come gli ingranaggi di un motore di una automobile. Con la mano non impegnata a palleggiare, un giocatore mostrava dei numeri e gli altri quattro eseguivano dei movimenti come un balletto, il tutto per arrivare a smarcare uno che potesse centrare quell'anello arancione lassù, utilizzando la sua tecnica e i principi che aveva imparato nei lunghi anni di allenamento. Pazzesco, si penserà.
Quella sera l'avversario di turno era il Campobasso. Vincemmo noi. Non era facile, ma vincemmo.
Poi c'era un'altra partita, dopo la nostra. Ovviamente vedemmo anche quella. Non ci bastava mai.
E poi, l'Apocalisse. All'inizio nessuno capì. Certo, quei lampioni che sbattevano contro il soffitto in modo assurdo e la tribuna che ballava sotto i piedi come un luna park non erano un bel segnale per stare tranquilli. Non eravamo alle giostre, ma dentro un palazzetto dello sport. E capimmo subito che c'era una sola cosa da fare in quei secondi pazzeschi: correre fuori.
Eravamo in tanti e ci precipitammo verso la piccola uscita che dava all'esterno. Topi in fuga, ammassati, impauriti, terrorizzati, alcuni meno forti cadevano travolti dalla corsa forsennata della massa verso la salvezza. Altri cercavano di fare da scudo umano per proteggerli, per impedire che venissero calpestati. Ma non c'è mai molto da fare contro l'irrazionalità, contro la paura della folla terrorizzata che cerca di mettersi in salvo.