giovedì 17 dicembre 2015

Avversione per l'espressione: "in qualche modo"



Mi fanno specie tutte quelle forme di espressione usate e riusate che finiscono con il diventare abusate, ovvero si adottano anche quando non ce n'è alcun bisogno.
Un po' come i "cioè": non servono per dare un contenuto ad una frase, ma perché non ci vengono altre parole. E fin qui.
Ma l'espressione suddetta mi provoca un certo fastidio anche per un'altra ragione.
Perché puzza lontano un miglio di quello che reputo uno dei maggiori difetti del popolo italiano: l'approssimazione.
Fa proprio parte della nostra natura la necessità 
ineluttabile di far quadrare i conti anche quando non si trovano mai. Ecco perché abbiamo inventato questa espressione. 
"Sì, è vero, gli immigrati non li gradisce nessuno, ma in qualche modo li dobbiamo accogliere, mica possiamo lasciarli morire in mare".
"La riforma del lavoro non è perfetta, ma in qualche modo andava fatta".
Ma che cazzo vuol dire "in qualche modo"?
Puzza proprio di quell'arte del compromesso di cui l'italiano è maestro, ma non quella nobile nella quale si rende necessario trovare un punto di mediazione tra vari punti di vista tutti qualificati, no: si tenta di rendere digeribile qualcosa di profondamente indigesto.
"Non mi piace questa minestra, ma in qualche modo la devo mangiare".
Se non ti piace, lasciala. 
Non farti influenzare dalla necessità di farti andare bene anche le cose che non ti piacciono. 
Ecco come ci stanno fregando. Attraverso l'uso delle parole ci fanno andar bene anche quelle situazioni che - in qualche modo - non gradiamo.
Ed è entrata talmente nel linguaggio comune che la tiriamo in ballo anche se non c'entra niente, anche se stiamo parlando di qualsiasi cosa, perfino di cose che sono l'opposto dell'approssimazione stessa: la matematica. Ovvero, anche quando parliamo di cose - per così dire - oggettivamente esatte, usiamo l'espressione tipica dell'approssimazione, rendendo quella cosa non più rigorosa. L'abbiamo castrata con le nostre stesse mani. Pardon, parole.
Siamo diventati anche nel linguaggio uno specchio sbiadito a cui affidare la nostra immagine peggiore. Ma non era questa l'era della comunicazione?

E se lo dice anche Sofri...

lunedì 14 dicembre 2015

Chiamatemi Ismaele



Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa - non importa quando esattamente - avendo poco o nulla in tasca, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, pensai di andarmene un po' per mare, e vedere la parte aquorea del mondo. È un modo che ho io di scacciare la tristezza, e regolare la circolazione.

Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell'anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l'ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto: questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. 

Soltanto nell’assenza di terra risiede la verità più alta, senza rive, senza limiti, come Dio, 
e per questo è meglio morire in quell’immane infinito che ingloriosamente farsi gettare dal
vento a terra, anche se quello sarebbe l’unico sistema per salvarsi. Sarà vana tutta questa
agonia?, oh, terrore terribile. E allora coraggio, coraggio, Bulkington! Aggrappati al timone,
semidio. Il tuo trionfo balzerà verso il cielo, su dalla schiuma del tuo morire d’oceano
(H. Melville)
---------------------------
Fin qui Melville. Ci sono poi delle musiche che da sole sostituiscono le parole, anzi sanno fare meglio di esse. Non importa cosa dicono e neppure cosa vogliono dire, ma l'orecchio che viene accarezzato da certi canti (non saprei meglio definirli, giacchè i termini melodie, o canzoni, oppure brani, non mi sembrano neppure da prendere in considerazione), insomma certi canti sembrano provenire da altri pianeti, e quando pensi ai pianeti pensi a dei globi posti al di sopra di noi, e sei portato a guardare in alto. Sicchè da una parte ti giunge questo canto, dall'altra alzi istintivamente il capo e lo sguardo a cercare quel luogo magico da cui proviene, infine gli occhi si arrendono al suono e si chiudono, poichè qualunque immagine che si frappone tra il suono stesso ed i timpani accarezzati sembra essere di troppo. 
Ed in quel posto lì ci vorresti restare giusto il tempo per capire quale Dio possa aver creato un simile miracolo.