mercoledì 13 gennaio 2016

Senza occhi e scheletri ammuffiti


Un giorno, tanto tempo fa, successe qualcosa che scosse molte coscienze. Qualcosa che rimane ancora appesa nell'armadio dei ricordi, là dove in genere conserviamo qualche scheletro ammuffito.
Quel ricordo fu alla base di una serie di riflessioni che alcuni cittadini sentirono il bisogno di condividere, e io ne trassi spunto per un metaforico racconto.
A distanza di anni il ricordo, gli scheletri e la rabbia sono sempre dentro quell'armadio. Attendono che qualcuno faccia pulizie, che li porti fuori da quella polvere, che torni a far loro respirare luce.
Già, luce. Una mia amica che curò la prefazione di quel romanzo, adottò proprio questo termine per significare un sacco di cose, alcune delle quali non fui in grado di capire in tutta la loro profondità. E forse non ne sono in grado neppure oggi.
"Senza occhi non si vede. Pure la luce si respira. Senza occhi lo sguardo è inanimato. Pure racconta di Sé. Senza occhi è averli chiusi, e messi in tasca. Ma, se chiudi occhi non vedrai. Se chiudi occhi è perché hai visto. Se chiudi occhi, il buio duella col giorno anche quando è notte, e perde.
Perdendo la sua compostezza, accetta la resa e abdica alla luce. La luce della verità. E della sua prepotente inevitabilità. Questa è una storia. E questa storia è una storia d’amore. La storia d’amore per la verità innamorata della luce. Non già dei presunti brandelli luminosi scovati e messi in scena per costruire il vero dei fatti e delle trame, ma, piuttosto, amante di quelle lievi carezze che le cose ti fanno per mostrarsi naturalmente reali e libere da improvvisati tranelli accomodanti; libere da quell’inganno che, incarnandosi nello sguardo scorretto, partorisce simulazioni e polvere.
Così, questa è la storia d’amore per la verità che, amando la libertà, non sa (e non può) fare senza.
Una storia che parla sottovoce, che imbarazza, che disarma e che commuove. Una storia che ha un’anima, e che ti acchiappa l’anima. Pagina dopo pagina, il fiato è trattenuto, gli umori mescolati, l’aria di famiglia innervata: merito del gioco artistico condotto da chi, come Dino, ha il pregio di saper con maestria, sensibilità ed eleganza stilistica, mescolare il mazzo, distribuire le carte, comporre e ricomporre un fascinoso puzzle che seduce, disvelando gradualmente, e direi sorprendentemente, l’orizzonte di senso, cuore, carne e sangue della narrazione.
Avvolta nelle pieghe di una vicenda sentimentale che si snoda e vive traversando, e superando il provincialismo dei luoghi e l’apatia di chi, indifferentemente, tace accettando, la trama interseca le trame, sfida la logica dispettosa delle temporalità e incrocia, ancora, la coppia protagonista: libertà e
verità si tengono per mano. Sempre. L’accesso all’una prevede l’incontro con l’altra: vicendevolmente, e strette in un disincantato girotondo alterno, disegnano percorsi frastagliati e traiettorie niente affatto stabili, invocano il tempo, inducono ad imitare il gambero e ad indietreggiare per tenere il punto, aprono al frequente colpo di scena, accendono i sensi, incrociano la vita, ed anche la morte. Quasi faticoso stargli dietro! Già, faticoso e pericoloso e rischioso.
Libertà e verità hanno un costo. Insostenibile quando l’animosità non è dotata dell’optional coraggio. Quel coraggio che fa i conti con i conti, e se ne infischia delle perdite di stime.
Dino ci provoca riuscendo nell’intento: ci guarda negli occhi e chiede ai nostri di tornare al loro posto. È una storia, questa, che si ama ad occhi chiusi".
Grazie, Angelica Iacovino.

VIDEO SERVIZIO RAI

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