giovedì 23 giugno 2016

La gente che parte da quaggiù


La gente che parte ha l'aria strana
in attesa dentro la stazione
spesso sembra essere gitana:
un misto di paura ed emozione.

La gente che parte a volte è ansiosa
mani che si stringono sul trolley
la combinazione sul lucchetto è misteriosa
ti sei scordato di chiamare lei.

La gente che parte ha sguardi persi
rispetto a quelli che usa normalmente
si chiedono se vedranno cieli tersi
o se cadrà la pioggia malamente.

La gente che parte ha una risorsa
porta se stessa in altre dimensioni
sa che partire è come prender la rincorsa
e saltare forte senza fiato nei polmoni.

La gente che parte da quaggiù
non sempre si lascia andare ad un sorriso
sa cosa l'aspetta, è sempre un rebus
salire in treno non è come il paradiso
ecco perchè a volte preferisce l'autobus. 


domenica 12 giugno 2016

Un viale per cantare - dedicata a Gennaro


C’era un ragazzo che aveva il nome napoletano e il cognome di un fiore.
È nato qui, è vissuto qui, ha fatto la sua sfortunata vita in un luogo a metà tra la provincia e il sogno. Un luogo che, come tanti di questo paese, spesso è distratto dalle grandi problematiche e si dimentica delle condizioni dei suoi figli, salvo ricordarsene quando è troppo tardi: o sono emigrati altrove oppure se ne sono andati troppo presto.
Questo ragazzo mi fa venire alla mente il protagonista di un film che non ho dimenticato mai, “Un uomo da marciapiede”. Però non l’attore bello, interpretato dall’esordiente John Voight che per vivere faceva il gigolò, ma quell’altro un po’ più sfortunato, leggermente zoppo, abbastanza balbuziente e tremendamente solo, che nel film si chiamava Salvatore Rizzo ma  il cui soprannome era “Sozzo”.
E un po’ per il nome, un po’ per il personaggio, aveva tutte caratteristiche che ce lo hanno fatto amare appena lo abbiamo visto. Era interpretato da un meraviglioso Dustin Hoffman. Ci sono molte cose di “Sozzo” che mi fanno pensare a questo nostro amico. Anche lui aveva un particolare modo di camminare, non era zoppo, ma aveva quell’andatura che la riconoscevi prima ancora di vederne il viso. Di essere balbuziente, lo era un po’ anche lui. Solo che al nostro amico dal cognome di un fiore accadeva una cosa che solo la musica può regalare: quando cantava, come d’incanto spariva la balbuzie ed era in grado di tirare giù un tipo di musica che era una via di mezzo tra la canzone popolare potentina ed il blues. Io non lo so se questo genere lo abbia inventato lui, ma era capace di cantare canzoni di Michele di Potenza arrangiate a volte in stile rap e a volte con lo stile del delta del Mississippi. Io non ho mai visto una cosa del genere.

mercoledì 18 maggio 2016

Non tutti i nodi si sciolgono


Considero valore che degli amici sentano il bisogno di non discutere soltanto del tempo, delle donne e del calcio, ma decidano di sottrarre alle loro famiglie e qualche volta al loro lavoro delle risorse per dedicarsi allo studio delle questioni delle quali potrebbero anche disinteressarsene, se non fosse che, a un certo punto, nella vita, per alcuni scatta questa fase dell’impegno personale, ed è un impegno senza alcun tornaconto, soltanto si risponde all’appello della propria coscienza che ti dice: “e tu che sei nato qui, vivi qui (oppure sei andato via, ma questa è e rimarrà per sempre la tua città), cosa hai fatto per questa terra?”.
Considero valore entrare nelle pieghe dei problemi che attanagliano la città e consultare amici, tecnici e cittadini per individuare cause e rimedi di una situazione che non sembra avere soluzioni.
Considero valore il tempo che impieghiamo a girare quel foglio sulla scrivania fino ad immaginare come si possa attuare anche soltanto una piccola alternativa che però possa smuovere una questione paralizzata.
E allora ecco che degli amici, ciascuno con il proprio vissuto, con la propria esperienza e la propria formazione, si appassionano a un tema, lo approfondiscono, lo studiano a fondo, e iniziano a raccogliere e confrontare dati e immaginare soluzioni, alternative, miglioramenti, proposte.
Certo, sono solo ipotesi. Ma sono ipotesi supportate da lunga esperienza nel settore, da chi quel pullman lo conduce da oltre trent’anni, e stando seduto su quella sedia, di discussioni alle sue spalle ne ha sentite migliaia e nel registro della sua testa si è immagazzinato ogni mugugno, ogni protesta, ogni maledizione. Sono ipotesi supportate da chi ha maturato una certa conoscenza delle abitudini dei cittadini di questa città, da chi ha osservato la città dal di dentro e non l’ha soltanto usata e basta. Sono ipotesi supportate da chi per mestiere analizza e compone dati e analisi di progetto elaborate attraverso lunghi ed affermati percorsi professionali.
Così è nato il progetto alternativo sulla mobilità cittadina. Così sono nate una serie di strategie per mettere in campo risoluzioni possibili, nuove linee urbane, una impostazione diversa di servizio di trasporto pubblico che tiene conto della conformazione della città, delle sue imponenti infrastrutture, della sua immensa area urbana, delle abitudini difficili e radicate della sue gente che utilizza in maniera spasmodica il mezzo di trasporto personale. E una domanda, una sola, ci siamo fatti, tanto per confutare un luogo comune che dice che è una “questione culturale”: ma in questa città da quanto tempo manca un servizio di trasporto che sia veramente efficiente da sconsigliare l’uso della automobile? Siamo veramente sicuri che il potentino non ama più il mezzo pubblico? E da quando non lo ama, se quindici o venti anni fa l’autobus lo prendevano tutti, dagli impiegati agli studenti alle massaie ai cittadini comuni, e non c’erano tante famiglie che accompagnavano i propri figli fin dentro la scuola?
Considero valore discutere serenamente di una serie di proposte che vogliono solamente provare a portare un valore aggiunto in una città pericolosamente allo sbando.
Considero necessaria un’apertura dei decisori pubblici nei confronti di quelle tantissime energie latenti di questa società, energie silenziose ma fattive, gente semplice che ama la propria città e la vorrebbe vedere diversa dalla città impersonale, farraginosa e senz’anima che è diventata. Ascoltateli. Possono dare una svolta di identità, di progettualità e di entusiasmo che sembra avere irrimediabilmente perso nelle curve di un nodo aperto ma che resta ancora, per molti versi, inestricabile.
Dino De Angelis - Enzo Marchisiello - Giuseppe Angiulli
Per iscriversi al gruppo sulla mobilità urbana

lunedì 2 maggio 2016

20 ragazze per me posson bastare


Frugando in rete trovi un sacco di notizie curiose e divertenti, solo che a volte, a metterle assieme possono sembrare anche un po’ contrastanti e alla fine non sai mai che pesci prendere. Nel vero senso della parola.
Vengo e mi spiego. Partiamo dalla prima.
Uno studio canadese, eseguito su un campione di 3.000 individui di sesso maschile  afferma che se un uomo abbia avuto almeno venti partner sessuali (rigorosamente donne, per cui lo studio riguarda unicamente gli etero), vede ridurre considerevolmente le probabilità di cancro alla prostata. Immagino che in questo preciso momento molti iniziano a farsi i conti per vedere se rientrano o meno nella media. Ma se siete arrivati a diciannove, non cercate disperatamente la ventesima, perché  magari la statistica vale anche per voi, non è che dovete per forza raggiungere il numero prefissato dall’indagine statistica. Diciamo che una ventina dovrebbe essere un campione abbastanza significativo da mettervi al riparo da una delle malattie più temute dall’universo degli stalloni di tutto il mondo.
"Matto, quello è proprio matto perchè forse non sa che posso averne una per il giorno, una per la sera", fino ad arrivare alla somma prevista. Vabbè, insomma, ci siamo capiti.
Sullo stesso argomento (rapporti sessuali, stiamo parlando di questo) emerge un altro dato, di segno leggermente diverso dal precedente. Troppi orgasmi maschili potrebbero far male, in particolare agli occhi. Proprio come ci dicevano quando eravamo piccoli, che toccando troppe volte il pistolino succedeva che si poteva perdere la vista. Lo dicevano per scoraggiarci, ma sembra, invece, che un ventinovenne si sia presentato al pronto soccorso poiché, mentre aveva un rapporto sessuale, abbia eseguito la cosiddetta “manovra di Valsava”. No, nessuna pratica sado-maso, bensì quella operazione che facciamo allorchè dobbiamo compensare la pressione nelle orecchie, ad esempio salendo in montagna. Ebbene, sembra che questa manovra, fatta durante un orgasmo, può causare un repentino aumento della pressione venosa nella retina, e può portare (come è stato nel caso del ragazzo), alla rottura dei vasi sanguigni e ad una retinopatia emorragica. Fortunatamente per il ventinovenne, dopo qualche tempo la guarigione è arrivata spontaneamente. I medici che hanno analizzato il caso però sottolineano come sia importante considerare anche l’attività sessuale come causa delle patologie dell’occhio. Insomma, occhio all’attività auto propulsiva.
Ultima notizia per i più raffinati cultori dell’eros, stavolta finalizzato ad una giusta causa: il kilt (il famoso gonnellino scozzese che portano gli uomini delle Highlands) migliora la fertilità maschile. E già, perché sembrerebbe che l’indumento creerebbe un ambiente fisiologico ideale, mantenendo la temperatura scrotale ottimale per una spermatogenesi robusta e di buona qualità. Per cui, secondo il ricercatore olandese autore della curiosa ricerca, il kilt è l’indumento ideale per gli uomini che hanno deciso di concepire un figlio.
Allora, riepilogando: va bene fare gli sciupafemmine perché la cosa riduce le possibilità di tumore alla prostata, ma meglio evitare il ricorso a pratiche troppo strane ardimentose e lasciare che la natura faccia il suo libero corso per arrivare all’apoteosi dei sensi.
E se poi volete crescere e moltiplicarvi, ebbene indossate un bel kilt originale scozzese: i vostri figli nasceranno sani e robusti. Che importa se per un po’ vi vedono andare in giro con una gonnellina a quadrettini colorati?  Non c’è niente di peggio che giudicare un uomo dalle apparenze, senza sapere il segreto che porta dentro. Anzi sotto.

domenica 24 aprile 2016

Come Thelma e Louise


Una mattina di aprile la signora aspettava l’autobus. Era in piedi, alla fermata, dritta come l’obelisco egizio in piazza della Concordia. Mai – e dico mai – si sarebbe accomodata sulla lurida panchina che ospitava i passeggeri nell’angusta fermata dell’autobus a piazza don Bosco (già piazza Cagliari). E non cedette alla tentazione di sedersi su quella lurida panchina neppure dopo un’ora che aspettava. Doveva andare a trovare la nuora in ospedale, con la sua bella busta di plastica con le melanzane arrosto preparate dalle sue manine preziose. Ma quel maledetto autobus non passava. Allo scoccare dell’ora e un quarto di attesa, la signora prese una decisione cruciale. Decise di salire sul primo autobus che passava. Non importava dove andasse. Aveva aspettato talmente tanto che le andava bene qualunque destinazione, pur di salirci, su quell'autobus. Doveva andare all’ospedale e si ritrovò allo scalo inferiore. 
“Potenza centrale, Stazione di Potenza centrale”, gracchiava un altoparlante da dentro l'elegante palazzo ristrutturato della stazione. Scese dalle scalette dell’autobus sentendosi Nicole Kidman sulle scale dell’Ariston, mancava solo Carlo Conti che andasse a prenderla. Poggiati i suoi piedi al centro del piazzale dove l'autobus aveva scaricato i passeggeri si sentì come un’importante diva del cinema (muto, perché non c’era un rumore intorno) e si guardò intorno come fece Anita Ekberg nel film La dolce Vita. Ma non c’era né una fontana in cui bagnarsi né Marcello Mastroianni ad accompagnarla. E fu lì che si ricordò che si doveva fare un paio di foto tessere. Certi bisogni nascono dalle contingenze. 
Così entrò nei locali della stazione indossando un foulard e degli occhiali da sole come Thelma e Louise (tutte e due in una) e appena le si spalancarono davanti le sliding doors della stazione si sentì a un bivio della sua vita come Gwineth Paltrow nell’omonimo film,  allora fece il suo ingresso nella sala biglietteria sfidando con lo sguardo le operatrici delle FF.SS. che la guardavano come una diva. 
Dentro di sé pensò: “Che cazz tenèt da guardà”, ma non una sola parola uscì dalla sua bocca, erano i suoi occhi che parlavano e azzittirono l’intera stazione, marmi e orologi inclusi. Perfino i tabelloni che indicavano gli orari dei treni si fermarono, rapiti dalla attrice-casalinga di Verderuolo superiore. 
Con passo deciso e calcolato, si infilò dentro la macchinetta che faceva le foto, cambiando posa nei quattro scatti consecutivi, poi si rimise gli occhiali, si aggiustò il rossetto che non aveva (ma faceva tremendamente figo grattarsi l'angolo della bocca), scostò la tendina scura, uscì dalla cabina e si mise in attesa di vedere il suo capolavoro sotto forma di foto tessere dall’apposita fessura, attendendo lo sviluppo con gli occhi attenti sopra le lenti scure. Quando uscì la carta patinata con le quattro immagini, la prese toccandola solo sui bordi e soffiandoci sopra per fare asciugare le foto, poi si ammirò come Ava Gardner, sentendosi felice di essere capitata in un posto che non aveva più visto dal viaggio di nozze a Roma di circa 40 anni prima. 
Era serena perché la sua mattinata non l’aveva buttata via. Le melanzane sott’olio invece sì. La nuora poteva anche aspettare. Gliene avrebbe preparate delle altre. Forse. Adesso che si sentiva una diva, le sue attenzioni dovevano concentrarsi su cose più importanti. Quanto tempo nella sua vita aveva sprecato. Adesso sì che l’aveva capito, finalmente. E tutto grazie ad un autobus atteso una vita e poi preso a caso. 
Qualcuno a questo punto si potrebbe chiedere come avesse fatto a tornare a casa, ma questa non era ancora la sua preoccupazione principale. Doveva ricordarsi a cose le servivano quelle quattro foto, ma qualcosa si sarebbe inventata. 
Uscì nel piazzale di Cinecittà, pardon, della stazione, tentata di aspettare nuovamente l’autobus, ma capì che se l’avesse fatto, sarebbe arrivata a casa il giorno dopo. E una come lei non poteva più buttar via il suo tempo ad aspettare uno stupido mezzo di trasporto pubblico. 
Prese il cellulare e iniziò a comporre il numero di suo figlio Rocchino. Già, ma poi gli doveva spiegare come mai si trovasse alla stazione di Potenza inferiore. 
Centrale, sì ho capito, si chiama Centrale adesso
Allora ripose il telefono in borsa, si aggiustò il foulard, si sistemò gli occhiali da sole per bene sulla fronte e si diede un tono per pronunciare quella parola che in vita sua non aveva detto mai: “Tassì?”.
Quando salì sul taxi che era già pronto alla stazione, mentre pronunciava all'autista l'indirizzo con la migliore dizione che poteva, si ricordò che una volta suo marito era andato a funghi e quando era tornato le aveva detto che la vita è una cosa meravigliosa. E, per una volta, dovette dargli ragione.

venerdì 22 aprile 2016

Come un airone nel cielo di aprile





Qualche volta nevica ad aprile
Qualche volta mi sento così male, così male
Qualche volta desidero che la vita non finisca mai
E tutte le cose belle, dicono, non durano mai

Non durano, dolce principe di Minneapolis, le cose belle non durano mai quanto vorremmo e quella coltre bianca che scende lenta dal cielo di primavera non ci dà mai il tempo di finire le cose che stavamo facendo, lasciandole sempre a metà, come parabole di aironi nel cielo che poi, all’improvviso non vedi più.
Come se te la fossi scritta in un momento bello della tua vita, l’ultima canzone, no, non l’ultima in senso cronologico, ma questa che “A volte nevica ad aprile” sembra che tu l’abbia scritta proprio per farci l’ultimo saluto.
Presto, è troppo presto. Del resto quelli come te, come tantissimi altri, non lo concepiscono proprio l’avverbio “tardi”. 

Non è mai successo che faceste tardi, che la vostra parabola, come quella degli aironi, fosse lunga abbastanza, forte abbastanza, infinita abbastanza da permetterci di ammirarla lungo tutto il loro dispiegarsi nel cielo.
Non succede mai che ci si stanca a guardare il volo di un airone nel cielo, e capita sempre che finisca troppo presto.
A impedirci di farlo saranno le perle che hai disseminato lungo il tuo percorso. 

Le sentiremo nelle macchine di notte fermi sotto il ponte della ferrovia e guarderemo il cielo per scorgere quell’airone che ci era sfuggito alla nostra vista di mattina. 
Poi ci ricordiamo che di notte gli aironi non volano. Allora chiudiamo gli occhi e cantiamo una canzone.
La primavera era sempre il mio periodo preferito dell’anno
Un tempo per gli amanti che si tengono la mano sotto la pioggia
Ora la primavera mi ricorda soltanto delle lacrime di Tracy
Piango sempre per amore, non piango mai per il dolore

No, non ci vedrai piangere per amore, e stavolta ci imporremo di non farlo nemmeno per il dolore.
Strano provare questo dolore di primavera, quando tutto sboccia e rifiorisce. 

Poi succede che la neve si trasforma in pioggia, ma non è una pioggia qualunque. È una pioggia diversa.
Se sai cosa sto cantando, alza le mani
Pioggia viola, pioggia viola
Volevo solo vederti nella pioggia di colore viola
”.
Buon viaggio principe.

sabato 2 aprile 2016

La signora degli Alberi



pezzo per www.talentilucani.it  -

Curiosa la leggerezza – o almeno questa è la sensazione d’impatto – con la quale in diverse città vengono abbattuti gli alberi ritenuti malati, o di qualche intralcio alla mobilità locale. Per fortuna non in tutto il mondo funziona allo stesso modo. 
C’era un ragazzo, che, fin da quando era piccolo, amava la natura e si preoccupava di tutti i fenomeni ad essa correlati: gli animali, il vento, la pioggia. Si nasce con certi istinti. Questo ragazzo aveva un sogno forse irrealizzabile, ma in fondo più i sogni sono difficili, più valgono la pena di essere studiati fino in fondo per cercare di realizzali: il ragazzo aveva l’ardente desiderio di fermare l’avanzata del deserto nel nord della Cina, dove viveva con i suoi genitori. Poi la vita, il destino, o cose del genere, nel 2000 hanno portato via da questo mondo il ragazzo, morto in un incidente. 
Da quel momento la madre ha deciso di accollarsi la ragione di vita del suo giovane figlio, strappato alla vita come un albero reciso con troppa superficialità, e fonda un’associazione dal nome piuttosto emblematico: Green Life. Lo scopo di questa associazione è quello di piantare alberi nel deserto settentrionale della Cina. Un’impresa che ai più sembrava pazzesca, irragionevole, perfino dispendiosa sotto l’aspetto economico. Ma l’amore inconsolabile di una madre e di un padre, e il desiderio di far rivivere il figlio attraverso la vita degli alberi, ha moltiplicato l’energia di questi genitori, che per dare vita al progetto hanno usato tutti i proventi dell’assicurazione ricevuti per l’incidente del proprio figlio. 
Piantare alberi in una zona desertificata non è affatto la cosa più semplice del mondo. Per farlo, Yi Jiefeng (questo il nome della madre) è ricorsa all’ausilio di diversi esperti che sono, pian piano, riusciti a trovare le modalità affinchè gli alberi piantati in terre arse potessero sopravvivere. E dal 2003 la signora Yi continua a sostenere la causa della sua associazione e, dopo aver dato fondo alle risorse iniziali, adesso l’associazione raccoglie fondi per arginare la desertificazione in varie zone della Cina e sono sempre di più i volontari che corrono in aiuto dell’Associazione. 
Secondo Yi Jiefeng la Cina ha un problema di desertificazione davvero grave. Se la situazione continua a peggiorare metterà in difficoltà la popolazione. Yi Jiefeng ha avvertito un vero e proprio senso di responsabilità e ha deciso di agire, per il bene della Cina e in memoria di suo figlio. L’associazione Green Life sta trasformando il progetto in qualcosa di molto più ampio: si piantano nuovi alberi in una zona desertica ma si lavora anche per diffondere una maggiore consapevolezza sul degrado del suolo. In Cina ampie praterie si stanno trasformando in zone desertiche a causa dell’aridità e della scarsità delle piogge. Colpa, probabilmente, dei cambiamenti climatici. 
Forse la Signora degli Alberi ha in mente questa speranza: ogni albero nuovo a cui regala la vita, è un soffio di respiro per il figlio che non c’è più ma che, attraverso quell’albero gli dona un piccolo sorriso. 
Una specie di conferma sembrò arrivare proprio dalla natura, poiché quando hanno piantato i primi alberi, dopo anni che non succedeva, in quella zona ha iniziato a piovere copiosamente. La donna guardando il cielo disse: “E’ il suo spirito che ci sta aiutando”. 
E da allora gli alberi piantati nel deserto non sono stati qualche decina e nemmeno qualche centinaia, e nemmeno diverse migliaia. Grazie all’azione energica della Signora degli Alberi e della sua associazione, gli alberi piantati in Cina sono ormai milioni. E da lassù il giovane Yang Ruize sorride per ogni ramo che si leva al cielo e gli arriva un po’ più vicino.

lunedì 21 marzo 2016

L'uomo con la maschera


Quando arrivai in casa di Casimiro ci trovai ufficiale giudiziario, poliziotti e impiegati notificatori. Dovetti dire che ero il cugino, altrimenti non sarei stato ammesso nell’appartamento. Quando si fa uno sfratto, meglio non avere intorno troppa confusione. Gli ufficiali giudiziari lo sanno, la polizia lo sa. Ma forse loro non sapevano che Casimiro è ammalato gravemente di fibrosi cistica. La fibrosi cistica altera le secrezioni di molti organi che contribuiscono al loro danneggiamento. A subire la maggiore compromissione sono i bronchi e i polmoni: al loro interno il muco tende a ristagnare e l' infezione e l' infiammazione tendono a portare all’insufficienza respiratoria. E così Casimiro, colto di sorpresa alle 8,30 di mattina da questa visita non particolarmente gradita, aveva sentito il bisogno di rimanere a letto, con un respiratore e una mascherina. Mi aveva chiamato dicendomi queste parole che mi fecero schizzare al Serpentone in pochissimi minuti: “Sono venuti, sono qui. Fai qualcosa per favore”. Lo sapevamo che sarebbe accaduto. Ne avevamo parlato a lungo le settimane precedenti. E così l’unica cosa che sentii di fare fu quella di chiamare tutti i mezzi di informazione di cui avevo i recapiti. E in pochi minuti la palazzina del Serpentone dove abitava Casimiro era piena di giornalisti, con tanto di taccuini e telecamere. Casimiro era un fuorilegge, come tante famiglie che abitano nel quartiere più degradato della città. Si era introdotto abusivamente in questo appartamento che trasudava umidità e aria cattiva da ogni poro delle sue pareti marce. Una casa che non avrebbe preso in considerazione nessuno, nemmeno quelli che ne avevano diritto in base ad una graduatoria, ovvero coloro a cui una casa spettava davvero. O forse no, ma questa è un’altra storia.
Mi sembrava crudele che, nonostante il peccato originale di cui si era macchiato, lo si dovesse cacciare senza alcun riguardo nei confronti delle sue precarie condizioni di salute. Casimiro aveva speso una parte dei suoi soldi a rendere quella casa abitabile. Direi meglio: respirabile, vista la sua malattia. E quella casa, che forse non sarà mai la sua casa, gli doveva quantomeno consentire, almeno fintanto che fosse stato tra quelle mura, di viverla senza acuire le sue già drammatiche condizioni. Le telecamere che arrivarono qualche minuto dopo furono cacciate anch’esse senza alcun riguardo. L’ ufficiale giudiziario disse che dovevano andar via tutti, che stavano intralciando il suo lavoro. Un reporter disse che anche lui stava facendo il suo lavoro e che la libertà di stampa è sacra, anche in un caso drammatico come quello. 

venerdì 18 marzo 2016

Ha vinto Niccolò Fabi

A volte mi capita di emozionarmi sentendo musica. 
Molto spesso l'emozione devo andare a cercarla nelle canzoni americane, o più spesso in quelle inglesi, dove comunque devi conoscere almeno un pò la lingua per sapere cosa hanno detto. 
E spesso, i testi migliori sono quelli semplici, immediati, che li capirebbe chiunque. 
Ma per fortuna ci sono anche un certo numero di cantautori italiani. 
Che strano: la parola cantautore non si usa quasi più, eppure a me piaceva.
Mi riporta alla mente atmosfere da anni 70 e 80, mi faceva sentire sbuffi di locomotive, puttane per strada che vendevano il loro corpo che qualcuno scambiava per amore e poeti maledetti su un aereo che volteggiava sui cieli di Napoli pensando a qualche ragazza abbandonata in posti lontani del mondo.
Tra questi cantautori, da diversi anni, mi sento molto vicino alle tematiche (testuali / musicali) proposte da questo ragazzo romano, Niccolò Fabi.
A volte mi sono chiesto qual è la ragione principale per cui mi piace questo cantautore. 
Mi rispondevo che probabilmente erano le parole, era il modo in cui le diceva, era la sua voce, era la sua musica semplice e orecchiabile. 
Adesso so che mi piace per tutte queste ragioni ma anche per dei temi che condivido da sempre. 
E sento di ringraziarlo per quello che fa, fuori dagli schemi della grande industria, fuori dalle majors, ma dentro il cuore delle persone semplici.
Grazie. 

Oggi è uscito questo singolo: "Ha perso la città". 

mercoledì 2 marzo 2016

Se fossi storia


Se fossi storia non sarei la rivoluzione francese. Non vorrei essere né dalla parte della regina a cui hanno staccato la testa, e nemmeno dalla parte dei rivoluzionari, affamati, arrabbiati, sviliti e, di conseguenza, violenti. Ho una certa considerazione per Robespierre, per il suo rispetto delle classi sociali più deboli, per il tentativo di salvare la democrazia anche a costo di pagarla con il prezzo di migliaia di vite, ma non sarebbe in lui che mi identificherei se dovessi scegliere una pagina di storia.
Non sarei la prima, né tanto meno la seconda guerra mondiale. Difficile identificarsi con l’olocausto, pensaci un attimo. Anche se è stata una materia che ti è entrata dentro come il gas nelle narici degli ebrei, come fai a immaginare di poter essere parte di quella vicenda?
Le guerre, in particolar modo le guerre mondiali, sono tra quelle pagine nelle quali non importa da quale parte ti schieri. Hai perso sempre.
Se fossi storia non vorrei essere le Crociate, perché mi sanno troppo di guerre di religione, ed è il tipo di guerra che ho odiato di più. Mi sembrano guerre che, nascoste falsamente sotto il nome del proprio Dio, servono a mascherare altri interessi, e sono pagine di storia che non mi piacciono particolarmente, e non perché a scuola tutto ciò che devi studiare ti piace poco per definizione, ma proprio perché  l’uomo certe pagine non dovrebbe mai scrivere.
E invece quante ne ha scritte? Anche nei nostri giorni fanno le crociate, e anche lì c’è qualcosa sotto che non mi ha mai convinto.  Se ci pensi anche quelli dell’Isis fanno quello che facevano i rivoluzionari francesi. Tagliano le teste.
La storia, quella più triste e cupa dell’umanità, si ripete. Ma questo lo aveva già detto qualcun altro.
La verità è che se dovessi scegliere di essere storia, preferirei non essere e basta. L’uomo ha dimostrato a se stesso, nel corso dei millenni, di non sapere nemmeno come rapportarsi alla storia e pertanto, di fronte a questo dubbio, la storia la ripugno.
E se potessi scegliere quale storia essere ne prenderei una che non esiste nella realtà, ma che è stata creata apposta da qualcuno che se l’è dovuta inventare per rifuggire dall’orrore di quella vera.
Se fossi storia allora non avrei nessun dubbio. 
Sarei una storia di fantasia. 

mercoledì 17 febbraio 2016

Come dentro a un film – post recensione di C’era una volta in America



Era l'inizio del 1984, ero ancora abbastanza giovane da giocare a pallone con porte improvvisate, ma abbastanza vecchio da permettermi di apprezzare i buoni film. Allora c’era Minà che imperversava nella tv italiana e quella volta in un programma che mi sembra si chiamasse “Blitz”, fece una visita direttamente al back stage dell’ultima scena del film C’era una volta in America, il film che proprio oggi, 17 febbraio (1984) uscì nelle sale americane.
Ricordo ancora chiaramente che la troupe della Rai fu ammessa nella villa dove Sergio Leone girò l’ultima scena, quella nella quale De Niro, risalendo le scale per accedere al piano del senatore Bailey (James Woods), entrò dalla porta di servizio, ingrassato  di oltre 30 chili appositamente per girare determinate scene di quel film. L’attore americano non era nuovo ad esperienze del genere, perché per Toro Scatenato di Scorsese di appena pochi anni prima (che raccontava la storia di Jack La Motta, pugile italo americano), aveva realizzato sul suo fisico la stessa trasformazione.
Appena entrò De Niro in scena, Sergio Leone fermò la macchina e si concesse ad un intervista a Minà, per parlare del film più impegnativo di tutta la sua carriera, un film che aveva richiesto circa dieci anni di lavoro. Fino ad allora non amavo particolarmente Leone, poiché non apprezzavo abbastanza il suo cinema western, ma di C’era una volta in America, vuoi per l’ambientazione più vicina ai nostri tempi, vuoi per il cast obiettivamente stellare, ebbi subito un’impressione folgorante, tant’è che, appena arrivato in Italia, lo andai a vedere con la piena consapevolezza che sarebbe stato un capolavoro.
È  difficile che capiti una cosa del genere prima di vedere un film,  anzi quando le attese sono così elevate non di rado succede che esci dalla proiezione piuttosto deluso. La scena che attesi con maggiore trepidazione non era relativa alle scene di maggior thrilling, ma quella che, nelle interviste di Minà, venne descritta da De Niro e Leone come “la scena più violenta di tutto il film”.
Fui enormemente sorpreso nel constatare che la scena era una normalissima riunione nella quale i membri della band erano seduti attorno ad un tavolo a bere un caffè, e De Niro girava piano il suo cucchiaio nella tazzina per circa 30 secondi guardando negli occhi tutti i presenti. Nulla di più: non una parola, solo immagini. Lì per lì la cosa mi incuriosì e basta, e pensai che l’aver individuato in quelle sequenze apparentemente normali, un'atmosfera particolarmente carica di tensione, ci voleva effettivamente una bella dose di fantasia. Ma quando in sala si presentò la scena in cui l’attore americano girò il suo cucchiaino nella tazzina, con il rumore assordante del metallo contro la porcellana e la tensione che correva negli occhi di tutti i protagonisti della pellicola, beh, forse è stato in quel momento che ho capito come pochi secondi di film possono rimanerti impressi per tutta la vita.
E oggi, dopo 32 anni tondi tondi, sono ancora qui a ricordare, fotogramma per fotogramma e decibel per decibel, ogni singolo frammento di quelle inquadrature.
Nei giorni successivi andai in giro per Napoli (dove studiavo) a cercare il poster del film da cui ne feci un enorme quadro  che ancora oggi adorna la mia stanza, e soltanto molti anni dopo, attraverso una moderno sito di aste on line, sono entrato in possesso del libro dal quale Leone trasse ispirazione, un libro che non viene più stampato da anni e non di grande valore per la letteratura americana: “Mano armata” di Henry Grey.  
E a volte, inconsciamente, quando prendo il caffè e giro il cucchiaio nella tazzina, capita anche a me di guardarmi intorno, solo che non ci trovo né James Woods, né Tuesday Weld, né William Forsythe, ma mi sento ugualmente come se facessi anch’io una piccola parte dentro quel film.  Effetti di un cinema che non uscirà mai più dalle nostre vite.

mercoledì 3 febbraio 2016

Una città che gira a vuoto


Stamattina un cittadino mi chiede con evidente perplessità se sia vero o no che a Potenza ci sono le scale mobili più lunghe d’Europa, le seconde al mondo. Ma lo chiede con un’aria scettica, presagendo che sia uno scherzo. È come se nella domanda ci fosse già la risposta: non è vero, dai. Non può essere. Invece è tutto vero. Tremendamente vero. Infrastrutturalmente vero. Sproporzionatamente vero. Irrealisticamente vero. Oniricamente vero. 
Poi arrivano i dati di Legambiente, quelli che misurano le qualità della vita e dei servizi delle città italiane. Inevitabilmente bisogna dare uno sguardo alla nostra beneamata. Tra le varie insufficienze, un rilievo colpisce lo sguardo di chi legge. Più che un rilievo, una bocciatura, in realtà. La beneamata è tra gli ultimissimi posti nella speciale graduatoria relativa al tasso di motorizzazione auto. In pratica il dato mette in evidenza quante sono le automobili circolanti. Potenza ne ha 72 ogni cento abitanti. Cioè, esclusi anziani (che sono tantissimi) e minori, abbiamo un numero di autoveicoli circolanti davvero impressionante. Ciascuna famiglia ha l’auto per la città, quella per gli spostamenti medi, quella per i viaggi, un’auto a testa per i figli (se sono minori il macchinino, che non rientra nelle statistiche sopradette) poi l’auto con la roulotte per le vacanze estive, ma solo nei mesi di maggio e settembre, perché negli altri fa troppo caldo o troppo freddo. E lì bisogna prendere il SUV. Mi pare giusto. 
Trasporto pubblico. Negli anni scorsi abbiamo speso fino a 15 milioni all’anno per mantenere un servizio di trasporto pubblico che gli utenti non utilizzavano nemmeno gratis. Quando racconto questa cosa a degli amici di fuori, se sono seduti sobbalzano sulla sedia, se sono in piedi hanno qualche attimo di sbandamento. Devo sorreggerli altrimenti rischiano di cadere. Quando si sono riavuti, mi chiedono di ripetere,perché non sono certi di aver capito. Vuoi dire che il servizio non si paga e, nonostante ciò, non lo prende nessuno? Si, confermo, quasi nessuno. Corse con due, tre, massimo 5 passeggeri. 
Siamo noi il paese di Pulcinella. Paghiamo cifre incommensurabili per i trasporti, ma continuiamo ad acquistare macchine. L’auto è il mezzo di trasporto di gran lunga preferito dal potentino medio. Gli puoi fare le scale mobili che vanno sulla luna, ma lui dirà sempre: si, sono belle, ma si può parcheggiare vicino a qualche cratere centrale? Sai com’è. No, non lo so com’è. Spiegatemelo voi. 
Spiegatemi come mai se prendete l’autobus vi sentite degli sfigati, e se lasciate la macchina da qualche parte in periferia e usate le scale mobili non è poi così trendy. Spiegatemi il vizio di pagare dieci, cento volte di più per muoversi in città pur di usare la vostra stramaledetta auto. Spiegatemi perché non vi piace condividere il mezzo di trasporto con altri cittadini. Spiegatemi perché continuate ad essere lupi solitari nelle vostre berline lucidate, con i cerchi cromati e lo stereo che pompa a tutto volume tum tum peggio che al Basilikos. Spiegatemi perché se vi vedete la sera, fate un giro in macchina senza meta, solo per consumare benzina. Ah già, non c’è più tanto traffico. Poi vuoi mettere il fascino di girare Potenza by night? E poi il prezzo della benzina è sceso. 
Mi arrendo. Avete ragione voi. Come direbbe un regista famoso: Continuiamo così. Facciamoci del male.

venerdì 29 gennaio 2016

Fà che tu sia



Fá che tu sia la mezzanotte e il mezzodì. 
Perché non é il tempo a ricordare chi sarai, ma due lancette riunite in una sola.

mercoledì 27 gennaio 2016

Una diretta con Radiomondo dedicata a questo blog!


La bella chiacchierata con Radiomondo.fm 

Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Quinnipak è un luogo dove chi vive o chi ci arriva ha una storia scritta addosso. Quinnipak è un luogo che invano cerchereste sulle carte geografiche. Eppure è là" (A. Baricco)
Qualcosa come a Quinnipak succede in qualche parte d'Italia. O forse nel mondo, non ho capito bene. Per un giorno quel luogo che non troveremo sulle cartine geografiche si trasforma in una radio. Ovvero continua ad essere un luogo che non è vero, perchè dove non si può vedere e non si può toccare nessuno ma si può solo ascoltare, non ha nulla di vero.
E in genere, quando si ascolta qualcosa, non si parla. Può sembrare strano, ma parlare interferisce con quell'altra cosa che stai facendo quando ascolti. Una cosa tipicamente umana, insomma.
Mai visti gli animali ascoltare e basta. In genere fanno qualche verso, mentre altri animali fanno altri versi. Oddio, anche molti umani fanno lo stesso.
Insomma, quello che volevo dire è che si verificano cose strane che accadono via etere.
Non ci serve sapere la spiegazione tecnica di cosa sia la propagazione via etere, ci basta sapere che bisogna stare lì e sentire. Si possono anche fare delle cose, intanto. Un caffè, ad esempio.
Alla fine qualcosa succederà, e potranno essere anche un sacco di cazzate, o forse, cose serie. Probabilmente nulla che ci interessi davvero.
Ma basterà che ci sia almeno una cosa, una soltanto, che ci colpirà la fantasia e che ci permetterà di esclamare, con un pizzico di sorpresa (nè meraviglia, nè stupore, ma solo sorpresa): "ah!".
Ecco, quella cosa lì potrebbe cambiarci qualcosa. Ascoltare. E poi : "Ah!". Nulla di più di questo.
A farcelo esclamare potrà essere una parola, una frase, o anche una musica.
Tutto il resto è una domenica mattina qualunque.
Ciao Max. E grazie. Dimenticavo: le cose verranno da sole.

sabato 23 gennaio 2016

I Daya: un lungo amore per il rock


Sembra un pò la storia del film Blues Brothers: due fratelli che, in nome di Dio, tentano di rimettere insieme i pezzi di una band scalcinata dopo decenni. Non so in nome di chi i Daya abbiano rimesso in piedi la loro band, ma l'operazione sembra perfettamente riuscita come quella di Jake e Elwood.
Massimo lo aveva annunciato presentando il live della serata: Vi spareremo due ore di energia pura. Nemmeno il tempo di applaudire e parte un’ondata rock di quelle che non ti aspetti.
La band produce note, sudore e lacrime ininterrottamente, staccando pochi secondi tra un pezzo e l’altro, giusto il tempo per il frontman di introdurre il brano successivo, e poi giù con Rolling Stones, Hendrix, Led Zeppelin, ZZ Top, AC/DC e chi più ne ha più ne metta. Inevitabile e doveroso anche un omaggio al duca bianco con Rebel Rebel, nella quale i ricordi del passato si mischiano con  quelli di un presente più vivo che mai in una fredda serata potentina riscaldata dal sound energico di questi quattro scatenati rockers.
Certo l’immagine del cantante si sposa poco con le irsute barbe rock dei texani o con il lunghi riccioli biondi di Robert Plant, forse rimanda più alla compostezza del look di un David Sylvian, ma la musica che esce dal gruppo ha per fortuna assai poco di composto.
I Daya sono un concentrato di energia che si è fidanzato con il rock ma di nascosto strizza l’occhio al blues, per cui  ogni tanto si lasciano andare alle classiche dodici battute, addirittura con tanto di ospitata. Cooptatacome pubblico per l’occasione quasi tutta la redazione della Gazzetta del Mezzogiorno cittadina, cosa tutt’altro che scontata, a dimostrazione di quanto affiatamento ci sia non solo dietro le scrivanie di piazza Mario Pagano tra i redattori del più importante giornale lucano.
Tra il festante pubblico, presenze importanti (ed anche ingombranti) della cultura e dello spettacolo potentino, che partecipa sempre con grande passione agli eventi locali.
Bella la scena in cui Tony Vece, professione fotoreporter, nel clamore assordante della musica pesante che si diffonde nell’aria, sposta la pancia delicata di Peppe Centola dal raggio d’azione delle casse, sotto gli occhi di Pete Townshend, venuto a Potenza nascosto nel maglione di Gianluigi Laguardia.
Due ore filate di note sparate dalle chitarre e dalla batteria dei Daya direttamente nelle orecchie dei numerosi partecipanti alla reunion del Cincillà che nemmeno un mezzo guasto all’amplificatore è riuscito a fermare, tra portate di cibi e fiumi di prosecco e birra.
Una bella serata di festa, allegria, musica e incontri trasversali tra generazioni: osservavo con Zio Matteo con un certo sollievo che non eravamo i più anziani della festa.
Però, caro Massimo, la prossima volta, “My generation” degli Who ce la dovete proprio fare, non fosse altro che per omaggio non solo alla memoria di una band che merita l’olimpo del rock di tutti i tempi, ma anche per significare una bella continuità musicale e di amicizia tra i componenti di una band di periferia che non si arrende alle minacce del tempo.
Adesso che ci avete solleticato con una serie di hit famose del rock internazionale, siamo pronti ad ascoltare anche un po’ del vostro repertorio, sì proprio quello nato a Rione Verderuolo. 
Magari senza aspettare altri trent’anni.
Alla prossima.

martedì 19 gennaio 2016

La mia religione è il rock


Ma che sta succedendo al rock? Quanti dispiaceri ci deve ancora regalare questa vita ingrata per privarci di coloro che hanno accompagnato molti dei nostri viaggi e delle nostre serate, rendendocele migliori?
In una notte stellata, tipo quella dipinta da Van Gogh, ci saluta un altro immenso protagonista del rock mondiale, Glenn Frey, anima e fondatore degli Eagles assieme a Don Henley.
Personaggio carismatico e a tratti dispotico, famoso per aver composto musiche che hanno accompagnato generazioni, assieme a quell'altro genio di Henley, una voce che pare scendere direttamente da un'altra dimensione. I due sono stati i veri padri-padroni della band, fino al punto da alimentare dissidi interni tali da rischiare di far cessare più volte la vita degli Eagles.  Ad esempio uno dei litigi più famosi della storia del rock, Glenn lo ebbe con Don Felder, uno dei due chitarristi che aveva fatto l'assolo di finale di Hotel California (l'altro era Joe Walsh), insomma non proprio uno qualsiasi.
Felder reclamava spesso di voler essere anche lui a cantare qualche canzone, ma Glenn gli negava categoricamente questa possibilità, dato che non c'era voce migliore di quella di Don per tutta una serie di hit della band. I malumori sfociarono durante un live a Long Beach nel 1980 (un concerto che poi fu chiamato: Long night in wrong beach), Glenn, verso la fine del concerto, a microfoni aperti disse a Felder che, una volta terminato il live, gli avrebbe spaccato il muso. Infatti, nei sotterranei dell'arena si assistette a scene di inseguimento e scazzottate a stento arginate dalla sorveglianza. La cosa bella è che queste scene erano fatte direttamente dai protagonisti e non dai fan!
Insomma una band che, a causa della forte personalità dei suoi protagonisti, attraversò parecchie inquietudini interne. Al punto che, dopo quella tourneè del 1980, ebbero una delle tante crisi di convivenza musicale gli stessi genitori della band, Glenn Frey e Don Henley, che non sopportavano più nemmeno di vivere nella stessa città e si trasferirono in due punti opposti degli States. Dovendo registrare il live di quella torneè (Eagles Live, appunto) il produttore fu costretto a raccogliere le registrazioni dei due artisti a distanza e spiegò in una intervista che: "la perfetta registrazione delle armonie vocali è stata gentilmente concessa dalla Federal Express".
Ma dopo qualche anno le aquile ripresero a volare e a confezionare ancora successi, sfociati nell'ottimo The Long Run, dove ripresero a suonare rock ballads e intonare cori alla loro maniera, come se avessero appena iniziato.
Nel 1998 ebbero il più alto riconoscimento della loro carriera, essendo inclusi nella Rock and Roll Hall of Fame. Durante la cerimonia, per la prima volta, suonarono insieme tutti i membri della band (perfino Meisner e Leadon che avevano fatto parte del primo periodo) e fu un momento di grandissimo pathos.
Ho avuto la fortuna di vederli dal vivo in Italia un paio di estati fa, e proprio stanotte, alla notizia della scomparsa di Frey, ho inviato un messaggio ai miei compagni di merende musicali, ai quali ho scritto:"abbiamo fatto appena in tempo".
Quel tempo che invece mi è mancato per assistere ad un concerto di un altro che ci ha lasciato prematuramente qualche giorno fa e che aveva occhi di colore diverso ma una capacità di innovazione non solo nella musica che gli umani ricorderanno per tutto il loro percorso sul pianeta terra.
Non sono particolarmente credente di entità extraterrene, penso che se dovessi scegliere una religione sceglierei il rock, e se dovessi immaginarmi di qui a una cinquantina d'anni, forse mi vedrei con altri vecchietti rimbambiti a discutere di quale band abbia significato di più per noi umani.



lunedì 18 gennaio 2016

Eppure ci manca sempre qualcosa.



Non è quello che si pensa comunemente.
La bellezza non è perfezione dei lineamenti, e nemmeno dei movimenti, non è la lunghezza delle dita o delle gambe, non è un naso piccolo e ben disegnato.

La bellezza è il ragazzo che aiuta la donna anziana a portare la spesa a casa senza che nessuno gliel'abbia chiesto, e poi vedere il sorriso della donna, sorpresa e ammirata non solo per il gesto, ma perchè ormai non lo fa più  nessuno. E' uscire dalla porta con un inchino mentre lei vorrebbe offrirgli qualcosa per ricambiare la cortesia, ma lui risponde: magari un'altra volta, e così dicendo le fa una promessa implicita che se dovesse ricapitare, la aiuterebbe ancora.

La bellezza è il contadino che torna a casa la sera stremato di fatica e con la schiena a pezzi che trova la moglie che gli fa trovare l'impacco di acqua calda, alloro, arnica e coriandolo per alleviarne la fatica. E poi cenano assieme, in silenzio, perchè è nel silenzio che si dicono le cose migliori.

La bellezza la trovi nel sorriso di un anziano che, mentre stai litigando con la tua ragazza, ti guarda e poi fa segno al cielo, e ti sta dicendo con gli occhi di fare altrettanto e tu capisci in un momento che non serve prendersela con lei per qualche stupida ragione, che è importante sapere godere delle piccole cose come una giornata di sole dentro un inverno freddo. E allora ti fermi per un attimo da quella improbabile litigata, e poi viene da sorridere anche a te e finisce tutto lì, e ti senti sciocco per aver iniziato quella discussione. E la abbracci.

Ecco cos'è la bellezza.

La bellezza è una situazione perfetta, non un corpo perfetto.


mercoledì 13 gennaio 2016

Senza occhi e scheletri ammuffiti


Un giorno, tanto tempo fa, successe qualcosa che scosse molte coscienze. Qualcosa che rimane ancora appesa nell'armadio dei ricordi, là dove in genere conserviamo qualche scheletro ammuffito.
Quel ricordo fu alla base di una serie di riflessioni che alcuni cittadini sentirono il bisogno di condividere, e io ne trassi spunto per un metaforico racconto.
A distanza di anni il ricordo, gli scheletri e la rabbia sono sempre dentro quell'armadio. Attendono che qualcuno faccia pulizie, che li porti fuori da quella polvere, che torni a far loro respirare luce.
Già, luce. Una mia amica che curò la prefazione di quel romanzo, adottò proprio questo termine per significare un sacco di cose, alcune delle quali non fui in grado di capire in tutta la loro profondità. E forse non ne sono in grado neppure oggi.
"Senza occhi non si vede. Pure la luce si respira. Senza occhi lo sguardo è inanimato. Pure racconta di Sé. Senza occhi è averli chiusi, e messi in tasca. Ma, se chiudi occhi non vedrai. Se chiudi occhi è perché hai visto. Se chiudi occhi, il buio duella col giorno anche quando è notte, e perde.
Perdendo la sua compostezza, accetta la resa e abdica alla luce. La luce della verità. E della sua prepotente inevitabilità. Questa è una storia. E questa storia è una storia d’amore. La storia d’amore per la verità innamorata della luce. Non già dei presunti brandelli luminosi scovati e messi in scena per costruire il vero dei fatti e delle trame, ma, piuttosto, amante di quelle lievi carezze che le cose ti fanno per mostrarsi naturalmente reali e libere da improvvisati tranelli accomodanti; libere da quell’inganno che, incarnandosi nello sguardo scorretto, partorisce simulazioni e polvere.
Così, questa è la storia d’amore per la verità che, amando la libertà, non sa (e non può) fare senza.
Una storia che parla sottovoce, che imbarazza, che disarma e che commuove. Una storia che ha un’anima, e che ti acchiappa l’anima. Pagina dopo pagina, il fiato è trattenuto, gli umori mescolati, l’aria di famiglia innervata: merito del gioco artistico condotto da chi, come Dino, ha il pregio di saper con maestria, sensibilità ed eleganza stilistica, mescolare il mazzo, distribuire le carte, comporre e ricomporre un fascinoso puzzle che seduce, disvelando gradualmente, e direi sorprendentemente, l’orizzonte di senso, cuore, carne e sangue della narrazione.
Avvolta nelle pieghe di una vicenda sentimentale che si snoda e vive traversando, e superando il provincialismo dei luoghi e l’apatia di chi, indifferentemente, tace accettando, la trama interseca le trame, sfida la logica dispettosa delle temporalità e incrocia, ancora, la coppia protagonista: libertà e
verità si tengono per mano. Sempre. L’accesso all’una prevede l’incontro con l’altra: vicendevolmente, e strette in un disincantato girotondo alterno, disegnano percorsi frastagliati e traiettorie niente affatto stabili, invocano il tempo, inducono ad imitare il gambero e ad indietreggiare per tenere il punto, aprono al frequente colpo di scena, accendono i sensi, incrociano la vita, ed anche la morte. Quasi faticoso stargli dietro! Già, faticoso e pericoloso e rischioso.
Libertà e verità hanno un costo. Insostenibile quando l’animosità non è dotata dell’optional coraggio. Quel coraggio che fa i conti con i conti, e se ne infischia delle perdite di stime.
Dino ci provoca riuscendo nell’intento: ci guarda negli occhi e chiede ai nostri di tornare al loro posto. È una storia, questa, che si ama ad occhi chiusi".
Grazie, Angelica Iacovino.

VIDEO SERVIZIO RAI

domenica 3 gennaio 2016

Dai Palmenti a Palazzo Ducale.

Non sono molti i posti nei quali è possibile fare più cose completamente diverse tra loro.
Chi penserebbe mai che, ad esempio, su uno stesso insediamento, si può ballare, fare il vino e diverse altre manifestazioni artistiche, musicali, culturali? 
Ebbene, questo luogo sono i Palmenti di Pietragalla. Sono circa duecento (ma c’è chi dice che in passato erano molti di più, poi soppiantati per far posto ai soliti insediamenti civili chiamati abitazioni), nei quali si possono fare alcune di queste cose.
Fare il vino resta sicuramente quella principale. Oggi ci sono famiglie che ancora lo fanno lì. Ma anche se molti palmenti sono abbandonati, resta questo mirabolante esempio di architettura contadina lì, alla fine del paese e all’inizio di un tornante che fa un otto, proprio come quelle piste elettriche con tanto di modellino di macchinina da corsa con cui giocavamo da bambini.
Parlando con amici del posto ci spiegano mille segreti sul borgo. E sul vino, sono tutti concordi nell’affermare una verità che non troveremo da nessun libro di storia né di cultura locale: “il nostro vino è meglio dell’Aglianico”. Ora, non so se vi rendete conto di quello che state dicendo. State affermando – anche con una certa sfrontatezza, lasciatemelo dire – che il “vostro” vino, sì, proprio quello che si faceva (e ancora si fa) in queste costruzioni dai tetti arrotondati scavate nel tufo della campagna pietragallese, è migliore di uno dei più famosi ed apprezzati vini mondiali. 
Ripetono, senza alcuna possibilità di smentita, che è proprio così, che loro forse avranno pure sbagliato il marketing, il lancio e la promozione del prodotto, ma se parliamo di qualità del vino, beh, sono pronti a fare qualunque prova. E spiegano che certi vitigni hanno delle caratteristiche uniche ed irripetibili che fanno di quel vino un prodotto che non teme confronti.
Poi ci portano a vedere da vicino quelle che nel loro dialetto chiamano i Rutt (suppongo che la traduzione possa essere "le grotte" per via dell’ubicazione sotto la strada, ma potrebbe anche essere una deduzione priva di fondamento). Nei Rutt si custodiscono botti un tempo innaffiate da quel vino meraviglioso di cui sopra.
Questa è stata la seconda sorpresa (la prima erano stati, appunto, i palmenti).
Poi arriva la terza: un Palazzo Ducale che dire solo che è bello vuol dire prenderlo a schiaffi.
Avendo ciascuno di noi avuto modo di vedere altri due o tre posti nella vita, quando ti trovi di fronte al Palazzo Ducale di Pietragalla, prima di procedere a fare i confronti strutture che hai visto nel passato, ti viene in mente una cosa: che noi, da queste parti, la promozione delle nostre bellezze non la sappiamo fare. Una costruzione che risale al 1500, con una tale bellezza architettonica da far impallidire molte delle cose che ci sono rimaste impresse nella memoria, con la differenza che per ammirarle avevamo percorso centinaia – a volte migliaia - di chilometri, mentre questa perla sta a un tiro di schioppo da Potenza. Una costruzione che è, al tempo stesso, castello e dimora gentilizia, con due balconate sorrette da imponenti archi di pietra sulla parte anteriore e finestre bifore sulla parte interna che richiamano palazzi di una importanza artistica che sarebbe vano scomodare, per non rischiare di passare per folli campanilistici visionari. Eppure tant’è.
Gli amici ci spiegano poi, accompagnandoci step by step, che il borgo si snoda a partire da questo palazzo che fa da porta principale al paese, in un complicato intrigo di vicoli che formano una specie di raggiera, conducendo tutti verso il corso principale posto all’esterno del  palazzo. 
Una piccola Venezia che, anziché essere costruita sulla laguna, è stata fatta sul tufo. A proposito di tufo: le costruzioni erette su questa pietra particolare non hanno affatto risentito del sisma del 1980 (il Big Bang dell’edilizia regionale), dimostrando che il tufo resiste ai terremoti meglio della roccia . Un’altra di quelle verità che non ti saresti mai aspettato. Come quella del vino, insomma.
La cultura locale è ben viva e rappresentata, tra gli altri, da una compagnia teatrale che, con una professionalità da far invidia agli attori famosi, mette in scena il classico: "Natale in casa Cupiello". Visto il periodo sembra anche normale. Ma il pubblico che affolla una sala del Palazzo Ducale appositamente allestita da volenterosi cittadini come se fosse un piccolo teatro è talmente numeroso da “costringere” la compagnia a fare delle repliche non previste.
Quando si respira vita, cultura, partecipazione alla vita di un borgo, e voglia di condividere delle esperienze sociali, ecco cosa salta fuori.
Prendi un palazzo del 500, degli antichi insediamenti caratteristici, una comunità attiva e partecipe, delle persone di buona volontà, un pizzico di talento, spirito di sacrificio quanto basta, ed il mix è pronto. Ed è tremendamente contagioso. È così che nasce la cultura.
Grazie a Vito e Paola, a Giovanni, e a Gabriella.

Un piccolo video-omaggio al piccolo borgo lucano QUI