domenica 24 aprile 2016

Come Thelma e Louise


Una mattina di aprile la signora aspettava l’autobus. Era in piedi, alla fermata, dritta come l’obelisco egizio in piazza della Concordia. Mai – e dico mai – si sarebbe accomodata sulla lurida panchina che ospitava i passeggeri nell’angusta fermata dell’autobus a piazza don Bosco (già piazza Cagliari). E non cedette alla tentazione di sedersi su quella lurida panchina neppure dopo un’ora che aspettava. Doveva andare a trovare la nuora in ospedale, con la sua bella busta di plastica con le melanzane arrosto preparate dalle sue manine preziose. Ma quel maledetto autobus non passava. Allo scoccare dell’ora e un quarto di attesa, la signora prese una decisione cruciale. Decise di salire sul primo autobus che passava. Non importava dove andasse. Aveva aspettato talmente tanto che le andava bene qualunque destinazione, pur di salirci, su quell'autobus. Doveva andare all’ospedale e si ritrovò allo scalo inferiore. 
“Potenza centrale, Stazione di Potenza centrale”, gracchiava un altoparlante da dentro l'elegante palazzo ristrutturato della stazione. Scese dalle scalette dell’autobus sentendosi Nicole Kidman sulle scale dell’Ariston, mancava solo Carlo Conti che andasse a prenderla. Poggiati i suoi piedi al centro del piazzale dove l'autobus aveva scaricato i passeggeri si sentì come un’importante diva del cinema (muto, perché non c’era un rumore intorno) e si guardò intorno come fece Anita Ekberg nel film La dolce Vita. Ma non c’era né una fontana in cui bagnarsi né Marcello Mastroianni ad accompagnarla. E fu lì che si ricordò che si doveva fare un paio di foto tessere. Certi bisogni nascono dalle contingenze. 
Così entrò nei locali della stazione indossando un foulard e degli occhiali da sole come Thelma e Louise (tutte e due in una) e appena le si spalancarono davanti le sliding doors della stazione si sentì a un bivio della sua vita come Gwineth Paltrow nell’omonimo film,  allora fece il suo ingresso nella sala biglietteria sfidando con lo sguardo le operatrici delle FF.SS. che la guardavano come una diva. 
Dentro di sé pensò: “Che cazz tenèt da guardà”, ma non una sola parola uscì dalla sua bocca, erano i suoi occhi che parlavano e azzittirono l’intera stazione, marmi e orologi inclusi. Perfino i tabelloni che indicavano gli orari dei treni si fermarono, rapiti dalla attrice-casalinga di Verderuolo superiore. 
Con passo deciso e calcolato, si infilò dentro la macchinetta che faceva le foto, cambiando posa nei quattro scatti consecutivi, poi si rimise gli occhiali, si aggiustò il rossetto che non aveva (ma faceva tremendamente figo grattarsi l'angolo della bocca), scostò la tendina scura, uscì dalla cabina e si mise in attesa di vedere il suo capolavoro sotto forma di foto tessere dall’apposita fessura, attendendo lo sviluppo con gli occhi attenti sopra le lenti scure. Quando uscì la carta patinata con le quattro immagini, la prese toccandola solo sui bordi e soffiandoci sopra per fare asciugare le foto, poi si ammirò come Ava Gardner, sentendosi felice di essere capitata in un posto che non aveva più visto dal viaggio di nozze a Roma di circa 40 anni prima. 
Era serena perché la sua mattinata non l’aveva buttata via. Le melanzane sott’olio invece sì. La nuora poteva anche aspettare. Gliene avrebbe preparate delle altre. Forse. Adesso che si sentiva una diva, le sue attenzioni dovevano concentrarsi su cose più importanti. Quanto tempo nella sua vita aveva sprecato. Adesso sì che l’aveva capito, finalmente. E tutto grazie ad un autobus atteso una vita e poi preso a caso. 
Qualcuno a questo punto si potrebbe chiedere come avesse fatto a tornare a casa, ma questa non era ancora la sua preoccupazione principale. Doveva ricordarsi a cose le servivano quelle quattro foto, ma qualcosa si sarebbe inventata. 
Uscì nel piazzale di Cinecittà, pardon, della stazione, tentata di aspettare nuovamente l’autobus, ma capì che se l’avesse fatto, sarebbe arrivata a casa il giorno dopo. E una come lei non poteva più buttar via il suo tempo ad aspettare uno stupido mezzo di trasporto pubblico. 
Prese il cellulare e iniziò a comporre il numero di suo figlio Rocchino. Già, ma poi gli doveva spiegare come mai si trovasse alla stazione di Potenza inferiore. 
Centrale, sì ho capito, si chiama Centrale adesso
Allora ripose il telefono in borsa, si aggiustò il foulard, si sistemò gli occhiali da sole per bene sulla fronte e si diede un tono per pronunciare quella parola che in vita sua non aveva detto mai: “Tassì?”.
Quando salì sul taxi che era già pronto alla stazione, mentre pronunciava all'autista l'indirizzo con la migliore dizione che poteva, si ricordò che una volta suo marito era andato a funghi e quando era tornato le aveva detto che la vita è una cosa meravigliosa. E, per una volta, dovette dargli ragione.

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