sabato 23 novembre 2013

Una sera di novembre


Non eravamo pronti. Non si è mai pronti per una cosa così.
Ignari, felici di quel poco che avevamo, e anche di quello che non avevamo, ma che non costituiva un miraggio. E nemmeno un desiderio. Non ce l'avevamo e basta. Funzionava così.
Una cosa che non era alla nostra portata semplicemente non si poteva avere. Punto.
Chi se ne frega, c'era il basket, ed era un motivo sufficiente a tirare avanti.
Poi c'era il palazzetto Coni che non era solo un campo di gioco, era un luogo di incontro, di chiacchierate, di socializzazione, come si direbbe oggi.
Era molto di più di un semplice campo rettangolare (piuttosto piccolo, a pensarci oggi), dove correre dietro quella palla arancione che aveva ancora tutto un colore, con delle striature lungo il perimetro che la disegnavano come fossero degli spicchi di arancia.
Si, un'arancia, solo più grande, più tonda e pesante. E perfetta: avevamo imparato a maneggiarla con abilità, avevamo fatto numerosi esercizi di presa, di trattamento, di destrezza. E poi i fondamentali, le partenze, i passaggi e quel mix di incredibile scienza applicata allo sport che si chiama biomeccanica, tutto per far entrare quell'arancio sproporzionato dentro un anello, anch'esso di colore arancione.
Ma alla fine avevamo imparato, e anche bene, quando una cosa ti piace i miglioramenti che fai sono impressionanti, e alcuni di noi centravano quell'anello con apparente semplicità, facendo diventare facile qualcosa che ai non addetti ai lavori sembrava impossibile.
Così anche quella domenica eravamo lì. La domenica è giorno di partite. Novembre inoltrato, pieno girone d'andata, squadre ormai rodate perfettamente, meccanismi consolidati, la squadra si muoveva in sincrono come gli ingranaggi di un motore di una automobile. Con la mano non impegnata a palleggiare, un giocatore mostrava dei numeri e gli altri quattro eseguivano dei movimenti come un balletto, il tutto per arrivare a smarcare uno che potesse centrare quell'anello arancione lassù, utilizzando la sua tecnica e i principi che aveva imparato nei lunghi anni di allenamento. Pazzesco, si penserà.
Quella sera l'avversario di turno era il Campobasso. Vincemmo noi. Non era facile, ma vincemmo.
Poi c'era un'altra partita, dopo la nostra. Ovviamente vedemmo anche quella. Non ci bastava mai.
E poi, l'Apocalisse. All'inizio nessuno capì. Certo, quei lampioni che sbattevano contro il soffitto in modo assurdo e la tribuna che ballava sotto i piedi come un luna park non erano un bel segnale per stare tranquilli. Non eravamo alle giostre, ma dentro un palazzetto dello sport. E capimmo subito che c'era una sola cosa da fare in quei secondi pazzeschi: correre fuori.
Eravamo in tanti e ci precipitammo verso la piccola uscita che dava all'esterno. Topi in fuga, ammassati, impauriti, terrorizzati, alcuni meno forti cadevano travolti dalla corsa forsennata della massa verso la salvezza. Altri cercavano di fare da scudo umano per proteggerli, per impedire che venissero calpestati. Ma non c'è mai molto da fare contro l'irrazionalità, contro la paura della folla terrorizzata che cerca di mettersi in salvo.



Una volta fuori, la paura si era appena placata. La gente si guardava intorno ignara, attonita, gli sguardi a chiedere cosa cristo fosse successo. Era proprio quella cosa lì? Era quello il terremoto? Ne avevamo solo sentito parlare, ma viverlo era tremendamente diverso.
Non eravamo pronti, non lo sapevamo che potesse essere così terribile.
Poi la casa alle spalle del palazzetto sembrava ridotta proprio male, anzi di più. Era squartata come se avessero gettato una bomba, e si sparse la notizia che c'erano anche dei morti.
Allora la smorfia di paura divenne terrore, specie in quelli che avevano poco coraggio, ed erano i più.  Gli altri, quelli più grandi, cercavano di tranquillizzare i primi: è finita, stai tranquilla, adesso è tutto finito, andiamo a casa, su andiamo a casa. 
Il gesto più ricorrente di tutti era quello che non aveva bisogno di parole: l'abbraccio.
E il pensiero correva ai nostri cari. Cosa sarà successo nelle nostre case?
Non c'erano telefonini per chiamare, non c'era il web per capire subito cosa fosse accaduto, c'erano solo le nostre gambe per correre, e le braccia per fermare la gente per strada: come state? Com'è andata a voi? Dove eravate, in casa? Ci sono danni? State tutti bene?
E poi a casa, finalmente incontrare i genitori, allora, com'è andata? State bene? Cristo, la casa è distrutta, e come faremo adesso?
Intorno a noi un clima caldo, incomprensibilmente caldo, e i cani latravano alla luna come se fossero stati colpiti anche loro da una paura che non sapevano spiegare.
Gli uomini e gli animali, davanti a certe manifestazioni della Natura, si comportano allo stesso modo, con irrazionalità, paura.  Non eravamo pronti. Mente chi dice che ci è abituato. A certi drammi non ci si abitua mai.
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Mesi dopo, in primavera, giocammo la partita di ritorno del nostro campionato, a Campobasso . Ci chiamarono: terremotati. Ci scagliammo contro il pubblico, si scatenò una rissa, la partita non terminò mai. la rissa finì a centrocampo, in lacrime. loro continuavano a fischiarci. 

Non lo immaginavano nemmeno, quello che avevamo passato.
Se non conosci l'Apocalisse, non la puoi capire.
Al viaggio di ritorno non dicemmo una sola parola.
Sull'autostrada, solo la notte, silenzi carichi di ricordi e i fari lunghi del pulmino che ci riportava a casa.

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